Un momento della presentazione del Giro d'Italia 2024 © RCS Sport
L'Artiglio di Gaviglio

Il Giro 2024 è troppo facile? Meglio così!

Il claim della “corsa più dura del mondo nel paese più bello del mondo” non paga, se spaventa i big: la scommessa sta nel rilanciare l’accoppiata col Tour, quindi ben venga un percorso che più si concilia col doppio impegno

20.10.2023 17:45

C'era una volta la corsa più dura del mondo nel paese più bello del mondo. Non che l'Italia nel frattempo si sia imbruttita, è però il Giro ad avere smesso di essere la corsa più dura al mondo. E per una scelta ben precisa, che qui applaudiamo: non può infatti essere un caso il percorso presentatoci per il 2024 da Mauro Vegni, straordinariamente morbido rispetto ai canoni a cui eravamo abituati.

La ragione di un simile disegno, come d'altra parte ammesso esplicitamente da Monsieur Limorté che ha rivendicato la diminuzione di circa il 20% del dislivello complessivo, sta infatti nel tentativo di rendere la partecipazione al Giro d'Italia compatibile con quella al Tour de France. Nella speranza – malcelata – di avere al via della prossima edizione Tadej Pogačar (noi in questo senso ci eravamo più che sbilanciati la scorsa settimana e, sebbene lo sloveno non sia stato annunciato contestualmente allo svelamento del percorso, rimaniamo convinti che RCS Sport stia ancora lavorando in tal senso) ma, più in generale, di invitare i principali interpreti delle grandi gare a tappe a riprendere in considerazione la doppietta.

Solo così, infatti, il Giro d’Italia saprà assicurarsi il suo posto nel mondo: non più cercando il confronto diretto con il Tour che continuerà ad avere una potenza di fuoco ineguagliabile – tanto dal punto di vista mediatico, quanto da quello finanziario e, in ultima analisi, politico – ma, piuttosto, inserendosi nel suo indotto per rinverdire quello che, in fondo, rappresenta la vera pietra filosofale del ciclismo fin dalla sua epoca eroica: il mito dell’Accoppiata. Quella per eccellenza, con la A maiuscola appunto, che non ha bisogno di specificare a quali corse si riferisca.

Rilanciare il binomio Giro-Tour, sia pure dalla posizione di sparring partner per la corsa di casa RCS, significherebbe riannodare il filo con la storia di questo sport, un filo che passa per Coppi, Anquetil, Merckx, Hinault, (Roche) ed Indurain e arriva fino a Pantani, permettendo alla corsa rosa di mettere fuori gioco quello che, oggi, appare il suo vero e sempre più minaccioso contender: vale a dire quella Vuelta a España che, venendo a fine stagione, vanta ormai sistematicamente ogni anno un parco partenti migliore.

Perché si ha un bel dire a far notare che un conto è mettere nel mirino il Giro d’Italia fin dall’inverno facendone il perno della propria stagione, e altro invece è ripiegare sulla corsa spagnola per raddrizzare o comunque arrotondare il bilancio della propria annata quando questa, alla fine di agosto, comunque è già indirizzata in un senso o nell’altro: tutto ciò è verissimo, ma è altrettanto vero che, alla lunga, la crescente considerazione che va acquistando la Vuelta potrebbe invogliare sempre più corridori a cercare quel tipo di doppietta targata ASO – certamente meno rischiosa poiché mette subito in campo la posta più importante, che sarà sempre il Tour – a tutto svantaggio, naturalmente, della corsa rosa.

E dunque ben venga un percorso del Giro d’Italia meno impegnativo, se questo può invogliare quanti più campioni a metterlo in agenda, pensando in primis agli uomini di classifica, certo, ma anche a tutti gli altri big che sono soliti concedersi a luglio sulle strade di Francia e mai, o quasi mai, a maggio su quelle d’Italia: da Van der Poel a Van Aert e passando per tutti i più forti velocisti e cacciatori di classiche in circolazione. Anzi: perché l’operazione abbia un senso, si tratta di un’impostazione da confermare negli anni a venire, per imporre un nuovo trend.

E pazienza se così avremo messo in soffitta il claim della corsa più dura del mondo: che ce ne facciamo in un Giro con millemila metri di dislivello se poi, a contenderselo, sono dei comprimari? D’altra parte, proprio la storia recente ci ha ampiamente dimostrato che un percorso massacrante non è di per sé garanzia di spettacolo. Anzi: spesso proprio le eccessive difficoltà – a maggior ragione se concentrate nelle ultimissime tappe, come accaduto nelle ultime due edizioni – inducono i corridori ad un eccesso di cautela, onde evitare di arrivare con le polveri bagnate al momento clou.

Ecco, se c’è un punto a favore nel percorso di questo Giro a prima vista così strano, paradossalmente è proprio la mancanza di momenti clou: mancano, infatti, quella tappa o addirittura quella specifica salita subito identificabili come il momento chiave in cui si deciderà la corsa. E la conseguenza può essere quella di avere uno svolgimento tattico molto più aperto e imprevedibile, nel quale le trovate delle singole ammiraglie potrebbero davvero fare la differenza rispetto al canovaccio atteso.

Non solo: quand’anche avessimo effettivamente al via Pogačar – ed è la speranza di tutti, a cominciare dal sottoscritto che altrimenti verrebbe spernacchiato nei secoli dei secoli – un percorso più leggero renderebbe anche più difficile, per lo sloveno, ammazzare la corsa. Intendiamoci: Tadej sarebbe comunque l’uomo da battere – e lo sarebbe su ogni tipologia di terreno – ma, non avendo salite durissime a disposizione, gli risulterebbe più difficile scavare dei solchi in classifica come, invece, ebbe modo di fare fin dall’Etna Alberto Contador nel Giro del 2011: probabilmente il più duro che si sia mai visto e che, per inciso, proprio in ragione di questa eccessiva durezza costò il posto di direttore di corsa ad Angelo Zomegnan.

L’impostazione generale, insomma, a me piace (e uso volutamente la prima persona singolare, sapendo che all’interno della redazione di Cicloweb i pareri sono quantomeno contrastanti, diciamo: ma anche questo è il bello, no?). Poi certo, prese una per una, molte tappe sono più che rivedibili, a cominciare da quella di Rapolano, in cui gli sterrati sono troppo pochi per creare selezione ma proprio per questo sufficienti, se mai, a generare una evitabilissima situazione di pericolo (ma c’è tutto il tempo per rimediare da qui a maggio, indurendo il percorso o aggiungendo altri chilometri di strade bianche per spegnere le velleità dei velocisti e ridurre, così, la platea di corridori interessati a prendere in testa quei settori).

E anche andando verso Napoli, oppure sui muri marchigiani, si poteva osare qualcosa in più. Per non parlare, poi, del trattamento riservato allo Stelvio, la Cima Coppi relegata all’inizio di una tappa che poi prosegue in maniera quantomai moscia fino all’insulsa salita finale verso Santa Cristina in Val Gardena. E c’è sempre il vizietto di riservare per il finale le salite più impegnative, – per quanto, fortunatamente, non si sia mai in presenza di pendenze monstre – anziché posizionarle al penultimo o terzultimo gpm. 

D’altro canto, però, tante altre giornate che in un Giro d’Italia più duro sarebbero passate in cavalleria – da Oropa ai Prati di Tivo, da Cusano Mutri a Sappada – dovranno per forza essere sfruttate da chi avesse paura dei quasi 70 km a cronometro proposti nelle due prove contro il tempo di Perugia e Desenzano, assolutamente per specialisti. Tanto più venendo meno lo spauracchio del tappone finale perché comunque, per quanto dura, tale non sarà la doppia ascesa al Monte Grappa del penultimo giorno, non fosse altro per l’arrivo posto poi in discesa, che rende anche quella frazione aperta a più soluzioni e a diverse interpretazioni.

Non la corsa più dura del mondo, dunque, ma magari la più imprevedibile e, si spera, la più divertente: questo deve puntare ad essere il Giro, cercando – senza vergogna – di assicurarsi ogni anno il miglior cast possibile (e a proposito: «Tadej, ricordati degli amici! Ricordati di chi t’ha voluto bene!») e vedendo nel Tour de France un fratello maggiore con cui crescere assieme. Non un mulino a vento contro cui andarsi a schiantare.

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