Wout van Aert, lo sconfitto eccellente del Giro delle Fiandre 2023 © Jumbo-Visma
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Un Fiandre memorabile ha uno sconfitto epocale: Wout van Aert

Per il belga quella di oggi è una disfatta che rappresenta un downgrade strutturale: se Pogacar è un dio del ciclismo e Van der Poel un vincente sempre e comunque, a WVA restano i panni più scomodi, quelli del predestinato a perdere

02.04.2023 20:36

Era solo questione di tempo, lo sapevamo tutti che un giorno o l'altro avremmo visto Tadej Pogacar vincere il Giro delle Fiandre, e oggi quel giorno è arrivato. Da settimane - almeno dalla Milano-Sanremo - ci caricavamo di aspettative, nell'attesa sempre più spasmodica di assistere a una sfida che ci aspettavamo fantastica fra i tre dominatori della scena nelle classiche: Mathieu van der Poel, Wout van Aert e appunto lo sloveno due volte vincitore del Tour de France. La E3 di venerdì scorso non aveva fatto altro che rinfocolare l'ansia di arrivare a questa resa dei conti: lì la battaglia a tre si era conclusa con lo spunto vincente di WVA, a confermare un assunto piuttosto elementare: puoi pure essere il più forte sui muri, Tadej, ma se questi due non li stacchi uno di loro ti fregherà sempre in volata.

L'epilogo odierno, felice per chi ama il ciclismo e sognava da 29 anni di veder vincere la Ronde a un corridore in grado di primeggiare nei GT (l'ultimo era stato Gianni Bugno nel 1994), ci dice che Pogacar ha interiorizzato alla perfezione la lezione del Fiandre 2022 (in cui fu protagonista assoluto con Mathieu, salvo poi restare clamorosamente fuori dal podio in uno dei finali più paradossali che si ricordino), e della Sanremo 2023, e ancora - quella freschissima - di 10 giorni fa ad Harelbeke. Dal capire come fare una cosa al realizzarla ci passerebbe poi ancora un oceano di buone intenzioni e sopraffine capacità, ma quando si parla del 24enne di Komenda non serve star lì a spaccare il capello in quattro: lui sa, lui fa. Vuole e può.

E deve, perché uno con le sue doti non si può accontentare. Peccato che per decenni ci abbiano insegnato che quella fosse la strada maestra: accontentarsi. Perché magari ci sono stati anche altri corridori in grado di provarci quantomeno, ma si sono ben guardati dal farlo. Tadej invece porta il ciclismo in un'altra dimensione, quella in cui questo sport stava dalla nascita, quella in cui i fenomeni facevano quello per cui li pagavamo (non in moneta sonante ma in amore): facevano i fenomeni, appunto.

L'autorità con cui oggi Pogacar, a un certo punto della corsa, quando pareva che tre minuti di ritardo rappresentassero la garanzia di un imperituro rammarico per tutti gli appassionati che volevano la lotta tra i big e non l'anticipo di pur bravissimi e meritevoli comprimari, l'autorità con cui questa corsa Tadej è andato a prendersela, rimettendo tutto in discussione quando era già tardi, è il simbolo di quello che in altro articolo abbiamo definito “il ciclismo degli dei”. Quando Zeus lanciava i propri fulmini non c'era discussione possibile: l'umano subiva.

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Eppure arrivare all'epilogo che tutti (o quasi) volevano, alla rivincita di un anno fa, al Tadej vs Mathieu, alla possibilità anche per Van Aert di inserirsi in cotanta contesa, non è stato per nulla scontato. Ora incensiamo il meraviglioso fuoriclasse sloveno, ma per chilometri e chilometri ci siamo mangiati le unghie fino ai gomiti nella tensione, nella crescente consapevolezza che il Fiandre stesse sfuggendo via. E beninteso, avremmo speso (io perlomeno l'avrei fatto) parole d'ammirazione anche per l'outsider di turno, per il Mads Pedersen (il più meritevole tra tutti, non a caso finito poi sul podio) che avesse dato scacco matto alle beghe dei tre predestinati. Ma non sarebbe stata la stessa cosa.

La possibilità, per lunghe fasi della corsa, è stata ben tangibile. E la responsabilità, lo devo dire onestamente, ricade sulla Jumbo-Visma e sul suo capitano, che oggi vive un drammatico downgrade rispetto alle ambizioni che legittimamente continua a nutrire (e che giustamente rianimerà in vista della Roubaix di domenica prossima). Se ci pensiamo, il quarto posto di Van Aert, il podio che gli sfugge per due centimetri in favore del rubicondo danese, è la sintesi pratica di tutta la teoria che abbiamo potuto vedere oggi nel corso della gara. E cioè - e taglierei la mano che sta scrivendo ciò - Wout, il Wout che amiamo alla follia, non è all'altezza di quegli altri due.

Non è un caso se uno conti tre monumento e l'altro quattro, mentre il RollingStone di Herentals sia fermo a quota uno. Gli manca qualcosa rispetto a loro, e a un certo punto bisogna dirlo perché illudersi all'infinito non serve a nulla. Oggi la sua Jumbo-Visma stava confezionando un capolavoro dell'orrore: nel momento in cui a cento chilometri dalla fine Pedersen ha ispirato un'azione diversiva destinata a tenere banco fino all'ultimo Kwaremont, più di uno ha dato fiducia alla suggestione dell'iridato di Harrogate. Gente forte come Kasper Asgreen o Stefan Küng; squadre forti come la UAE Emirates, che ha inserito nell'azione Matteo Trentin, capace di essere insidioso se serve; non la Alpecin-Deceuninck, che si era già dissipata a inizio corsa per tappare le falle aperte dalla distrazione di Van der Poel (si legge: ventagli) e che a quel punto non si è più ritrovata il Søren Kragh Andersen da spendere. Ma la Jumbo?

La Jumbo che aveva l'uomo perfetto per il delitto perfetto, ovvero Christophe Laporte, in grado probabilmente di essere qualcosa in più che uno specchietto per le allodole; o al limite un Tiesj Benoot, solido interprete di queste corse; ebbene, la Jumbo ha mandato in avanscoperta Nathan van Hooydonck, che è bravissimo, per carità, ma che finora ha fatto sostanzialmente il gregario, non maturando (non ancora perlomeno) la caratura per essere un fattore in questo tipo di classiche.

“Forte” di questa presenza nel gruppo all'attacco, la squadra giallonera ha pensato di poter giocare di rimessa rispetto ad Alpecin e UAE. Ma a questo punto le possibilità erano due: o Van Aert non si sentiva al massimo (era pure stato coinvolto in una caduta insieme ad altri 50), e in tal caso non aveva senso lasciare il solo Van Hooydonck in quel drappello, ma andava inserito anche Laporte (e ce ne sarebbe stato il tempo, visto che per esempio Matteo Jorgenson e Benoît Cosnefroy sono rientrati in un secondo tempo sul gruppetto Pedersen); oppure Van Aert si sentiva bene, ma allora il gioco di rimessa non aveva alcun senso, perché il rischio era troppo alto.

Il rischio, tangibile quando il distacco ha superato i tre minuti, era che la corsa sfuggisse via, come in effetti avrebbe fatto se Pogacar sul penultimo Kwaremont non fosse entrato in modalità Zeus (appunto). L'obiettivo era far lavorare la Alpecin? Ma la squadra di Mathieu era già ai minimi termini, e comunque MVDP due Fiandre li ha già vinti e teoricamente avrebbe anche potuto infischiarsene e lasciar correre via. Era far lavorare anche la UAE? Ma la squadra di Tadej, che aveva già perso Tim Wellens (nella caduta di cui sopra), davanti aveva comunque una discreta copertura tattica nella figura di Trentin.

Insomma è finita che Tadej, con la sua incontenibile esuberanza, ha mascherato l'errore tattico dell'ammiraglia Jumbo, mettendo la contesa su un livello in cui la tattica andava a pesare meno, surclassata dalla sfida misurata sulla forza bruta, primitiva dei vari protagonisti. Una contesa in cui anche il potentissimo Van der Poel ha dovuto soccombere, nell'unico punto in cui avrebbe potuto soccombere, ovvero sulla salita più lunga della giornata, l'Oude Kwaremont, muro su cui sin dall'anno scorso Pogacar gli prende le misure.

Alla fin fine il punto di caduta di tutto quello che è successo, errori e imprecisioni in corsa, è stato un esito esaltante, una rimonta che ha reso la vittoria di Tadej ancora più bella e memorabile. Ma tanto abbaglio non ci deve accecare, né può mancare la consapevolezza che una simile battaglia cambi sostanzialmente gli equilibri in campo. Oggi li ha cambiati a tutto danno di Van Aert. Per il quale questo 2 aprile 2023 non rappresenta solo l'ennesimo Fiandre perduto; ma anche il giorno in cui, amaramente, ha preso coscienza su cose sulle quali mai avrebbe voluto prenderla.

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Marco Grassi
Giornalista in prova, ciclista mai sbocciato, musicista mancato, comunista disperato. Per il resto, tutto ok!