Ciclismo in Italia: i numeri uno della comunicazione

04.02.2017 10:00
Tante volte ci siamo chiesti perché il ciclismo, nonostante una certa crescita di credibilità come sport, dopo le mazzate dell'antidoping subite a cavallo tra gli anni '90 e gli anni zero, non riesca a tornare a essere un grande racconto popolare amato in Italia, almeno come lo era venti anni fa. Ne abbiamo pensate di ogni, dai giovani che si allontanano dallo sport, al poco appeal del modo di correre moderno, passando per gli stenti organizzativi dettati dalla crisi economica, che magari portano certi organizzatori a scelte di compromesso poco funzionali allo spettacolo, vedere le Wild Card del Giro d'Italia. 

Ma poi, cari amici, mi è bastato vedere ieri sera questa perla, perché davanti ai miei occhi si squarciasse il velo di Maya. Mi sono passati davanti anni di ciclismo seguito dal vivo, in Veneto, tutte le persone che ho conosciuto sui palchi, e a bordo strada, e ho pensato: «Chi mai potrebbe essere l'analfabeta funzionale che dopo un silenzio di più di 3 mesi, nei quali è intercorsa tra l'altro l'elezione di un presidente, ha pensato bene che il contenuto più interessante da postare su una pagina istituzionale fosse una notizia che non solo ha niente a che vedere col ciclismo e neanche col Veneto, ma che è una bufala talmente grossa che anche il più indignato tra i populisti al mondo direbbe: "si vede che è una cazzata!" »

Beh, il problema principale è nella risposta. CHIUNQUE. 

Il ciclismo italiano (non solo quello veneto, specifichiamolo perché poi sembra un'invettiva contro una regione e non contro un movimento) pullula di tali personaggi, ai quali alle volte vengono affidati con leggerezza incarichi delicati per l'immagine del nostro sport da organi composti da persone magari più furbe, ma intellettualmente non necessariamente più elevate, elette da assemblee composte in maniera piuttosto discutibile (Rovereto non è stato neanche un mese fa).

I risultati sono questi: facciamo ridere i polli. Facciamo passare l'idea che è uno sport seguito e gestito da decerebrati. Perché purtroppo non è un episodio isolato, è capitato di vedere cose simili anche sui profili di squadre italiane Continental, ad esempio. E Facebook non è che la punta di un iceberg enorme, fatto di dirigenti arroganti, direttori sportivi ignoranti e buzzurri, accompagnatori lecchini e corridori col paraocchi, troppo concentrati sul loro presente per sviluppare una coscienza critica che impedirà loro di diventare, se non saranno dei semplici corridori falliti, come quei direttori sportivi ignoranti. 


E invertire la rotta, nell'era della post-verità (la leggenda narra che il termine sia stato coniato dall'Accademia della Crusca dopo aver a lungo osservato i comunicati stampa delle squadre dilettantistiche italiane) sarà sempre più difficile. E un bel giorno si giungerà alla conclusione che gli scemi siamo noi, che controlliamo qualunque sfumatura di ogni notizia che scriviamo prima di pubblicarle, che indichiamo il distacco esatto di un corridore all'arrivo, o il chilometro preciso al quale una fuga raggiunge il vantaggio massimo in una tappa. Noi che se usciamo dalla fredda cronaca è solo per elevare il racconto e coinvolgere il lettore nella evasione dalla realtà di tutti i giorni che per noi rappresentano queste pagine.
Notizia di esempio
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