Il presidente francese Emmanuel Macron con Jonas Vingegaard ieri a Cauterets
La Tribuna del Sarto

Polvere di banlieue sotto il tappeto dell'egemonia francese

La superiorità del Tour rispetto al Giro affonda le radici in questioni che vanno ben oltre il ciclismo, in un'autorappresentazione da cui però restano accuratamente fuori le cose che non vanno. Ma che esistono ugualmente

07.07.2023 11:06

Il Tour110 ha avuto la sua spettacolare partenza dai Paesi Baschi, terra con una forte passione per il ciclismo; migliaia e migliaia di Ikurrina, la bandiera basca, usate come la muleta di un torero al passaggio del gruppo. Se mai ve ne fosse bisogno, l’entusiasmo visto al Grand Départ, paragonato a quello della partenza del Giro d’Italia, ha confermato un divario importante tra la corsa nostrana e quella dei nostri cugini d’oltralpe.

Il Tour de France è sempre stata la competizione ciclistica più seguita al mondo, ma la forchetta con il Giro, il secondo Grand Tour per importanza, si è molto allargata negli ultimi decenni. Molto spesso abbiamo letto che questa differenza fosse dovuta a molteplici fattori: startlist ricche di campioni, denaro, qualità del prodotto televisivo, visibilità internazionale; ciò ha portato e porta a chiedere alla organizzazione della corsa rosa di avvicinarsi al “rivale” transalpino proprio su questi aspetti.

Pur ammettendo che RCS riesca ad avere una lista partenti simile, qualità e studio delle riprese dello stesso livello, premi in denaro identici; la distanza rischierebbe di rimanere la stessa. Oggi un evento sportivo, soprattutto una corsa ciclistica, è una vetrina di promozione territoriale, turistica e non solo. Più delle differenze negli aspetti tecnici della corsa, è questo cambio di modello narrativo che ha incrementato la distanza tra il Tour ed il resto del ciclismo.

La vera differenza tra Francia ed Italia è egemonica. L’Italia sicuramente è un paese importante dal punto di vista culturale, più di quanto noi stessi crediamo; ad esempio, per la moda, la cucina, per prodotti industriali di alta qualità ed altro ancora. Per quanto il nostro sia ancora un paese di riferimento, purtroppo molto meno rispetto al passato, è un dato di fatto che non lo sia a livello della Francia. I nostri cugini riescono a rendere importante ed universale uno sport antico e fuori moda come una corsa in bicicletta.

È questo il punto, nel momento in cui il messaggio di un evento sportivo si trasforma in un racconto di promozione turistica, prima ancora che agonistico, il Tour ha potuto usufruire di un’egemonia culturale, politica e militare nel mondo, inferiore solo agli Stati Uniti d’America. Il Giro da solo non può essere in grado di recuperare questo gap. Non ha mai stupito che ogni anno il presidente della Repubblica Francese, qualsiasi fosse il suo colore politico, fosse presente ad una tappa del Tour (Emmanuel Macron si è fatto vedere ieri al seguito della memorabile frazione di Cauterets), e ben venga, come primo passo, che il nostro Sergio Mattarella abbia premiato il vincitore del Giro ai Fori Imperiali.

A volte, però, dietro un’immagine egemonica c’è anche altro. Quest’anno la fotografia di una Francia bucolica, fatta di piccoli borghi in festa gialla e di una romantica Parigi al tramonto d’estate, ha rischiato e rischia di essere macchiata dalle proteste scoppiate nelle periferie per la morte per mano di un poliziotto del giovane Nahel, diciassettenne di origine algerina a Nanterre, banlieue a nord-ovest di Parigi.

Alla partenza da Bilbao, lì dove negli anni passati è stato forte e cruento lo scontro tra forze indipendentiste ed il governo centrale di Madrid, abbiamo assistito ad una manifestazione di orgoglio di un popolo, pacifico e gioioso, con ben in vista il suo simbolo di appartenenza; proprio mentre gli organizzatori vivevano con ansia il ritorno in patria della corsa. Ma l’altra Francia, quelle delle periferie, non è praticamente mai “visibile” al Tour, e non credo che da qui a Parigi ci saranno eccezioni; i francesi sono bravi a nascondere la polvere sotto il tappeto.

In questo, bisogna riconoscerlo, il Giro è più onesto. Non ha mancato di “onorare” con il suo passaggio le ferite del paese: territori terremotati, foreste colpite dalla tempesta Vaia del 2018 oppure, come quest’anno, il ricordo dell’immane tragedia del Vajont. La partenza da Longarone, a sessant’anni della catastrofe causata dalla avidità e dalla cattiva politica, responsabilità tutta umana, è stata emozionante e significativa.

Ogni anno assistiamo alla Paris-Roubaix, che attraversa i dipartimenti più poveri del paese transalpino, ed è raro leggere in quei giorni racconti su quel territorio, che evidenzino questo contrasto: la regina delle classiche tra miniere chiuse e disoccupazione.

Si potrebbe anche giustamente dire che non è compito di un corsa a pedali raccontare le contraddizioni di un luogo, i problemi sociali a cui si passa sotto casa. No, non è compito dello sport; eppure il ciclismo potrebbe fare qualcosa, anche se molto poco: una narrazione vera e sincera, non del Tour de France, ma della France de Tour, per magari iniziare a cambiare un'immagine bella ma indubbiamente parziale della realtà.

Alla Grande Boucle non vediamo mai le banlieue, Les Territoires perdus de la République (definizione di Georges Bensoussan, storico ebreo francese di origine marocchina), queste sono Francia tanto quanto i bellissimi borghi di campagna, dove indubbiamente è presente il cuore della passione per il ciclismo. Attraversarle non sarà il miglior messaggio turistico, ma potrebbe trasformare radicalmente la narrazione che circonda la grande corsa a tappe.

Se in questi ultimi decenni abbiamo assistito alla storiella del Grand Tour come vetrina turistica della regione, sarebbe una vera rivoluzione iniziare a vedere una trasformazione del racconto, in primis proprio della corsa più importante al mondo. Senza nascondere tutto il bello, si mettano in evidenza le contraddizioni dove ci sono; si trasformi la narrazione in un esercizio di conoscenza profonda del territorio, attraverso il fluire di biciclette fiammanti pedalate da campioni, che facciano scoprire ed aprire gli occhi su una realtà, spesso ingiusta, a soli pochi isolati da casa, che non si deve ignorare ma risolvere.

La paura degli organizzatori di trovare blocchi stradali verrebbe meno, la corsa sarebbe accolta come amica, non un semplice momento da sfruttare per ottenere visibilità.

Lo sport non può e non deve fare scelte politiche, economiche o sociali; ma può illuminare aree buie, ricordare le contraddizioni a chi fa finta di non vederle, smascherare l’ipocrisia violenta della politica davanti ad un paese in fiamme, dove i giovani, spesso minorenni, sfogano una rabbia repressa di una vita fatta di discriminazione e povertà. Eric Zemmour, il leader politico francese di estrema destra, nei giorni scorsi è stato capace di scrivere senza vergogna “serve una repressione feroce contro i rivoltosi delle banlieue”. Se questa è la soluzione proposta da un politico, non deve stupire che ciclicamente si debba assistere a rivolte come quella della scorsa settimana.

Il Tour faccia vedere al signor Zemmour, a quelli come lui ed al mondo intero, che dietro l’immagine bucolica esiste anche questa di Francia; non risolverà di certo i problemi e le disparità sociali, né fermerà la repressione, ahimè, ma almeno non si rappresenti solo una parte della nazione, si dia voce e visibilità anche a loro.

Il Tour di Bartali che salva l’Italia dalla guerra civile è un mito, appunto, ma illumina sulla forza simbolica che può avere una corsa in bicicletta. Sarebbe fantastico che il Grande Ricciolo prendesse sulle spalle l’onere simbolico di ricucire un paese diviso.

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