L'ultimo gioiello disegnato da Mauro Vegni
Editoriale

Giro d'Italia 2026: La fine di un'era, per tutto il movimento

Dedichiamo l'editoriale post-presentazione a Mauro Vegni, spesso indebitamente bistrattato, dopo avergli spoilerato affettuosamente l'ultima creatura: cosa cambia davvero ora?

Ieri in diretta il nostro direttore ha ribadito la sua propensione, quantomeno da alcuni anni, a non dare troppa importanza alle scelte dei percorsi, auto-sbeffeggiandosi un attimo dopo dal momento che in verità questo è forse il core business di Cicloweb.it, visto che stavamo analizzando un tracciato spoilerato la scorsa settimana senza sbagliare quasi niente. Tuttavia se è vero che la questione non interessa necessariamente tutti, bisogna ammettere che la presentazione del percorso del Giro d'Italia è sempre un evento, forse il più importante dell'inverno ciclistico (parlando di strada). Anche più della presentazione del Tour de France? Sì, anche più della presentazione del Tour de France. Non si tratta di dire quale corsa sia più importante di un'altra, anche perché la risposta a questa domanda è ben nota, ma di constatare una cosa diversa: da una parte che il Tour abbia un percorso piuttosto che un altro non influenza per niente i programmi dei corridori, il Giro di più, proprio perché nel suo insieme non avrà mai (quantomeno nel medio-breve termine) lo stesso peso del Tour de France; dall'altra, tra gli appassionati, il Giro ha sempre rappresentato un'isola felice che proponeva quasi ogni anno il percorso più affascinante nel quale riporre certe nostalgie di lunghe cronometro e tapponi micidiali. Dal Tour ci si attende sempre il peggio e per questo alla fine ci si accontenta quasi sempre. Viceversa dal Giro ci si attende sempre la perfezione e si susseguono giorni di dibattiti su questa e quella tappa per la cui analisi si vanno a tirare in ballo frazioni viste 10, 20, 30, 50 anni prima.

L'attesa per il percorso del Giro ha una magia diversa. Basta stare per un po' su X - che a dispetto del suo infame proprietario rimane il social del ciclismo, purtroppo o per fortuna - per capire quanto la comunità delle due ruote si attivi nei giorni precedenti e successivi alla presentazione del Giro. Lo dimostra anche un altro fatto: nessuna corsa come il Giro d'Italia ha mantenuto, almeno fino ad oggi, un attaccamento al suo direttore quasi analogo in tutto il corso della sua storia. Anzi, forse la rilevanza e la popolarità del direttore del Giro d'Italia è addirittura aumentata negli ultimi anni: la quantità infinita di meme prodotti, nel bene e nel male, tanto su Zomegnan quanto su Vegni è solo una delle prove tangibili dell'impronta che i percorsi del Giro (in tutte le loro sfaccettature), più che il Giro stesso, hanno segnato la cultura ciclistica di tutto il mondo. E questo è forse il tema di questa edizione: con Mauro Vegni in pensione, cosa resterà di tutto questo?

 

Vegni, l'ultimo direttore di sempre

È un argomento spinoso, che abbiamo sommariamente toccato all'indomani del Giro di Lombardia, proprio dopo l'annuncio più o meno definitivo del buon Mauro. E direi di ripartire proprio da lì, recuperando alcune delle considerazioni già fatte:

"Il ritiro di Mauro Vegni non è soltanto un banale cambio di direzione. È veramente la fine di un'epoca, la conclusione di un altro dei romanticismi che pian piano il ciclismo va perdendo, come succede per ogni cosa che si ammoderna e si adegua ai tempi. Non si tratta di una considerazione sdolcinata da nostalgici, ma un fatto concreto con cui confrontarsi per parlare di ciclismo da adesso in avanti: Mauro Vegni non sarà sostituito da nessuno e sarà l'ultimo dei direttori del Giro - nell'accezione di deus ex machina che fino a oggi ha contraddistinto questo titolo - di sempre. In sostanza, il prossimo direttore di corsa del Giro, plausibilmente Stefano Allocchio, lo sarà banalmente nell'accezione regolamentare, mentre l'organizzazione della gara (di cui il disegno del percorso sarà solo un tassello come un altro) sarà questione collettiva dell'azienda, senza la firma indelebile di un Direttore (con la D maiuscola) per come noi abbiamo inteso Vegni, Zomegnan, Castellano, Torriani e Cougnet.

È una svolta che il Tour de France ha già compiuto da tempo, delegando la tracciatura del percorso a Thierry Gouvenou, che ha da molti anni come unico compito quello di stabilire le poche parti di tracciato che non siano già state assegnate in nome del Dio Quattrino. Quello che noi chiamiamo direttore del Tour, ovvero Christian Prudhomme, ha nei fatti un ruolo molto più simile a quello che in RCS Sport svolge Paolo Bellino (amministratore delegato e direttore generale), che non ai compiti di Mauro Vegni. Non è un caso che già da qualche anno anche il percorso del Giro arrivi ad una forma più o meno conclusa soltanto all'ultimo minuto componendo un puzzle con le candidature economicamente più sostanziose entro le quali il buon Mauro ha avuto spesso ben poco margine di manovra per lasciare sul percorso la sua impronta."

È forse anche con l'amaro in bocca di chi si sente questo ruolo cucito addosso sempre più stretto che Mauro Vegni ha deciso di (o è stato convinto a) lasciare. Crediamo di non fantasticare troppo se leggiamo in questa chiave uno dei passaggi fondamentali dell'intervista che ci ha rilasciato, quando gli abbiamo chiesto se ci fosse ancora il suo "zampino” sul percorso del prossimo anno e lui ci ha risposto “Eh sì, è tutto mio”, con la stessa espressione e lo stesso affetto di chi ha cresciuto un figlio e vorrebbe ancora dirgli, come Cat Stevens, “it's not time to make a change”.

Eppure noi, cercando di ricostruirlo in anticipo, il percorso lo abbiamo visto cambiare e anche considerevolmente rispetto a come lui lo aveva pensato. Quindi, senza davvero poter conoscere la verità, ci chiediamo e vi chiediamo: il percorso presentato a Roma è davvero il suo tanto quanto quello progettato un paio di mesi fa?

Una cosa non è certamente sua fin dall'inizio: i trasferimenti. Quando Vegni è subentrato a Zomegnan gli occhi erano puntati proprio su quella questione, dopo il folle Giro d'Italia 2011: a onor del vero quel dibattito ora fa sorridere se pensiamo a trasferte assurde che compaiono costantemente nei tre Grandi Giri, ma per l'epoca fu uno scandalo, nonostante quei trasferimenti dipendessero da una ragione ben precisa, ovvero toccare più o meno tutte le regioni in occasione dei 150 anni dell'Unità d'Italia. E Mauro Vegni su questo ha sempre avuto un occhio di riguardo, chiaramente senza poter ostacolare il progresso che obbligava ad abbandonare sempre di più la vecchia abitudine di ripartire dal luogo in cui si era arrivati il giorno prima. Il fatto che questo tema sia stato totalmente ignorato nel tracciare il percorso del 2026 è la prova che l'impronta che un direttore può applicare è ormai relegata ai limiti dell'irrilevanza. Basta guardare la sequenza di tappe dall'11a alla 17a per capire di cosa stiamo parlando. Si tratta di un tema che peraltro sta tornando di attualità, ora che si torna a parlare del fatto che le trasferte sono per lo più a carico delle squadre, mentre le più importanti società organizzatrici (RCS è una di queste) riescono a produrre un'ingentissima quantità di utili che forse sarebbe il caso di redistribuire/reinvestire, magari rinunciando a certe candidature in favore di una logistica più umana, magari investendo sul tema della sicurezza. 

Tuttavia qualcosa stride anche guardando alle scelte tecniche. Se in teoria Vegni ha dovuto rinnegare il lavoro di chi lo ha preceduto, non si può dire che sul piano dei tracciati questi fossero tanto più leggeri di quelli tracciati da Zomegnan. Basti pensare che nei primissimi anni di direzione in prima persona - dopo aver fatto parte dell'organizzazione già per molti edizioni - cercò in tutti i modi di proporre per la prima volta una tappa che avesse Gavia e Stelvio in sequenza, un progetto che Torriani non riuscì mai a completare, pur avendolo messo su carta qualche volta. Al contempo non si può dire che la replica della Maratona delle Dolomiti proposta nel 2016 fosse tanto meno tremenda della mitica tappa del Gardeccia che appunto apparteneva alla mitologica edizione del 2011. E le stesse osservazioni si possono fare guardando ai secchi numeri: la lunghezza delle tappe si è sempre mantenuta considerevolmente alta, risultando l'elemento più chiaro di controtendenza del Giro d'Italia rispetto a certe mode che piacciono più agli spettatori occasionali che ai veri appassionati

Ieri, proprio pungolando Mauro su questo ultimo punto, siamo riusciti a tirargli fuori una mezza parola polemica all'ultima occasione utile, all'interno di un'intervista dove si era mantenuto “democristiano” (nel senso metaforico del termine) con una certa eleganza. Basti riportare la sua risposta testualmente: “Al Giro per me dovrebbe vincere un corridore che ha fondo; per fare fondo devi avere i km e quindi una delle prerogative, a parte le tappe brevi e intense, è inserire anche tappe abbastanza lunghe, (ma) moderatamente (con tono sarcastico) secondo quello che è il desiderata degli ultimi anni”. D'altronde sullo stesso tema non riuscì a trattenersi nel corso di un Processo alla tappa di due anni fa, quando provocato sulla lunghezza di certe tappe inutili, perché brutte da vedere, perse le staffe decisamente più del solito finendo per pronunciare una frase storica (con annessi alcuni dei meme che menzionavamo prima): “Ma 120 km che ciclismo è? A questo punto facciamo anche correre gli allievi con i professionisti”. Al di là della radicalizzazione di questa affermazione, in poche parole racchiudeva tutta la perplessità su cosa il ciclismo stava diventando (e forse lo è già diventato), riuscendo a unire l'accorciamento delle distanze e la ricerca spasmodica del talento negli asili nido passando per tutto il resto, senza però sembrare qualunquista. In quella frase c'era già tutto lo smarrimento di chi è fiero del suo ruolo ma se lo sente portare via mentre il ciclismo si turbocapitalizza perdendo di vista certe regole sulle quali questo sport si regge e che se ignorate troppo a lungo finiranno per presentarci il conto, in un modo o nell'altro.

Mauro Vegni
Il mitico momento in cui Mauro Vegni perse le staffe in diretta, forse anche quello in cui ha iniziato a pensare alla pensione

 

Un'edizione di transizione

Nel percorso appena presentato per il Giro d'Italia 2026, di per sé non esaltante ma comunque sostanzialmente da promuovere, chi vi scrive è convinto di leggere tra le righe tutto questo, nella misura in cui le cose più criticabili sono frutto di compromessi ormai troppo ingombranti per consentire che la figura del direttore di corsa possa ancora esercitare la sua funzione appieno. Il Giro d'Italia con la presentazione di ieri perde il suo ultimo direttore di corsa factotum e chiude in questo senso un capitolo centenario della storia del ciclismo. Viene da chiedersi se tutto quello che di bello abbiamo detto del Giro d'Italia fino ad adesso, ovvero di fatto la sua identità, si conserverà anche negli anni a venire. Siamo in un'epoca in cui chiedere di accorciare il Giro a due settimane non sembra nemmeno più di tanto un'eresia e anche se non crediamo che questa sia l'intenzione di nessuno dentro RCS, la presenza di un grande direttore in grado di reggere il confronto con i suoi predecessori sicuramente non guasterebbe a tenere la rotta.

In questa chiave Mauro Vegni senz'altro ci mancherà, nonostante sia stato fin troppo sbeffeggiato in questi ultimi anni. Se è vero che anche da questi lidi non sono mancate in alcune occasioni parole dolci, è anche vero che non si può limitare la sua figura a qualche tappa tagliata per neve e a qualche discussione con i corridori. Perché indipendentemente dalle idee che si possono avere e dagli esiti finali emersi sul campo, non si può negare che si sia sempre esposto, confrontandosi con i corridori prima di prendere decisioni definitive. Se è vero che due anni fa a Livigno sotto la neve c'è stata della confusione, è anche vero che la neutralizzazione per maltempo a Napoli dell'anno scorso trovò tutti d'accordo. E spesso tendiamo a ricordarci troppo di eventi come il primo e a dimenticarci situazioni più simili alla seconda.

Mauro era (ed è) il Giro d'Italia fatta persona, proprio come lo erano i suoi predecessori. Chiuderei con una provocazione, che a onor del vero non è troppo distante da una seria proposta: io affiderei tutto a Giusy Virelli; col Giro d'Italia Women sta facendo un ottimo lavoro ed è già stata accusata di fare percorsi troppo duri, perciò direi che ha il pedigree perfetto per tutelare l'identità della corsa. I maschi hanno organizzato per anni le gare femminili, non vedrei niente di sbagliato nell'assegnare ad una donna l'organizzazione del Giro maschile. Cougnet, Torriani, Castellano, Zomegnan, Vegni… Virelli… per me suona bene.

(Ri)ecco il Giro d'Italia 2026: il percorso con tutte le tappe e le altimetrie
Francesco Dani
Volevo fare lo scalatore ma non mi è riuscito; adesso oscillo tra il volante di un'ammiraglia, la redazione di questa testata, e le aule del Dipartimento di Beni Culturali a Siena, tenendo nel cuore sogni di anarchia.