La celeberrima tappa del Gavia al Giro d'Italia 1988 © MeteoLive
L'Artiglio di Gaviglio

La retorica dei “forzati della strada” ha rotto le scatole

E non se ne può più nemmeno dell'epica del Bondone o del Gavia. Ma il sindacato si faccia sentire a tutti i tavoli: i ciclisti devono liberarsi dai sensi di colpa per il doping e opporsi a trattamenti che in altri sport sarebbero inaccettabili

08.06.2023 20:43

Lunedì scorso gli operai avrebbero dovuto montare i ponteggi sulla facciata principale del palazzo in cui abito, ma quegli scansafatiche non si sono nemmeno presentati. E sapete perché? Perché pioveva! Poi, bontà loro, all’indomani mattina si sono degnati di iniziare, ma hanno preteso il caschetto, le imbragature e tutti gli altri dispositivi di sicurezza. 

Che razza di scioperati! Qual è l’esempio che pensano di dare agli aspiranti muratori di domani, questi edili arricchiti, capricciosi e viziati? Altro che bei tempi di una volta, quando migliaia e migliaia di brulicanti, laboriosi ed instancabili operai erigevano piramidi e ziggurat, acquedotti e anfiteatri, templi e cattedrali, e senza stare tanto a sottilizzare per il troppo caldo, il troppo freddo, le troppe ore di lavoro o i troppi incidenti. Come dite? Erano schiavi? No, quelli erano eroi! Eroi che con le loro immani fatiche hanno consegnato alla storia opere imperiture, fonte di ispirazione per artisti e letterati e, ancora oggi, meta di pellegrinaggio di milioni di turisti…

Ecco, perché mai questo stesso ragionamento – palesemente assurdo – acquista invece un senso se traslato al ciclismo? Perché mai, insomma, degli sportivi professionisti dovrebbero sottostare alle condizioni meteo più estreme, abbassare la testa di fronte ad ogni possibile pericolo accessorio a quelli già messi in conto da una disciplina che si svolge all’aperto e, magari, darsi pure battaglia dall’inizio alla fine di ogni corsa? E perché dovrebbero essere da esempio per la società, per i giovani o per chicchessia? Questa è gente che lavora, come tutti noi, e che come tutti quanti noi va considerata e rispettata. Basta con la stucchevole retorica dei “forzati della strada”, basta con l’epopea del Bondone ’56 o del Gavia ’88!

Ma basta, anche, con la pretesa di ergere i corridori a modello, salvo poi scandalizzarci quando qualcuno viene pizzicato all’antidoping, invocando pene esemplari (esemplari, de che?) che siano di insegnamento ai bambini, signora mia! Basta, pure, con il rinfacciare ai ciclisti condotte di gara sparagnine, ignorando il contesto che li spinge a correre in un certo modo anziché in un altro, e che dipende dalle situazioni tattiche e dal modo in cui sono disegnati i percorsi.

In poche parole, smettiamola di pretendere che degli atleti professionisti agiscano per il nostro sollazzo, e rendiamoci conto, una buona volta, che il loro unico obiettivo è quello di fare al meglio il proprio lavoro, cercando di portare a casa il massimo risultato possibile per corrispondere le aspettative delle aziende che garantiscono loro uno stipendio. Esattamente come ciascuno di noi.

Vedendola da questa prospettiva, ecco che certe prese di posizione come quelle maturate all’ultimo Giro d’Italia, dai ritiri per Covid-19 alla richiesta di modifica alla tappa del Gran San Bernardo, acquistano improvvisamente un senso, perché dettate dall’esigenza di tutelare, rispettivamente, la salute e la sicurezza dei diretti interessati. Il problema, se mai – e lo abbiamo già detto più volte, sia in questa rubrica, sia, più in generale, su Cicloweb, ma lo ha riconosciuto anche Dario Cataldo, ospite dell’ultima puntata di SmartCycling – sta nel modo ben poco chiaro in cui certe decisioni vengono comunicate (e il discorso vale sia per certi abbandoni, sia per le modalità che portano a stravolgere, dalla sera alla mattina, certe frazioni), e nell’incapacità, da parte degli organizzatori, di predisporre per tempo delle soluzioni strutturali a problemi ampiamente preventivabili (e il riferimento va, ancora una volta, alla variabile maltempo, tutt’altro che imprevedibile nel periodo in cui si corre il Giro d’Italia).

E però, anche da parte dei corridori e di chi li rappresenta, ci aspetteremmo che questa sacrosanta presa di coscienza diventasse sistematica e abbracciasse a 360 gradi la loro sfera professionale, anziché limitarsi a qualche estemporanea levata di scudi, curiosamente, sempre o quasi in corrispondenza della corsa rosa. Giusto per non fare nomi e cognomi, l’elezione di Adam Hansen a presidente del CPA, l’associazione mondiale dei corridori, ha costituito indubbiamente un enorme passo avanti rispetto al lungo mandato di Gianni Bugno, non fosse altro perché in questo modo i ciclisti sono tornati, finalmente, ad essere rappresentati da un collega che fino a pochissimi anni fa pedalava ancora insieme a loro e ha dunque ben presenti le dinamiche e le esigenze del gruppo di oggi. Un ex corridore che magari non sarà stato un campione, ma che sicuramente è molto più sul pezzo rispetto a chi, nelle ultime decadi, le corse le ha seguite per lo più dall’elicottero o tutt’al più dalla cabina di commento, incappando peraltro in un imbarazzante conflitto di interessi quando gli è capitato di esprimersi, nella doppia veste di telecronista e sindacalista, su una delle situazioni più tragicomiche degli ultimi anni: la tappa di Morbegno 2020.

Hansen, insomma, ha senz’altro portato una ventata di aria fresca, testimoniata anche dalla sua presenza alle corse – la sua prima apparizione da presidente è stata ai Paesi Baschi in aprile, seguita, qualche settimana più tardi, da un sopralluogo al Romandia – e, soprattutto, dal filo diretto aperto con i corridori via Twitter, da dove è solito lanciare appelli, aprire sondaggi e suscitare dibattiti. Ma affinché quest’aria, oltre che fresca, non risulti anche fritta, serve rappresentare le ragioni dei corridori su tutti i tavoli.

Arrivato a capo del sindacato a metà marzo, infatti, Hansen sarebbe potuto tornare sul caso Miguel Ángel López esploso un paio di mesi prima: un corridore licenziato dalla Astana sulla base di semplici rumors legati al doping e che, di lì a poche settimane, ha però potuto firmare un nuovo contratto con un’altra squadra, il Team Medellín, senza che l’Unione Ciclistica Internazionale abbia avuto nulla da obiettare, né sull’interruzione del primo rapporto, né sul nuovo ingaggio. Come è possibile che un simile atteggiamento pilatesco, da parte dell’UCI, sia passato sotto silenzio? 

Di sicuro, poi, Hansen avrebbe potuto (e dovuto) pronunciarsi su un altro caso accaduto un mese dopo il suo insediamento, e cioè la vicenda che ha riguardato Javier Romo: il giovane spagnolo, a sua volta in forza all’Astana, ad aprile è incappato in un bruttissimo infortunio proprio alla Vuelta al País Vasco, rimediando una frattura della mascella con conseguente perdita di liquor encefalico. Un quadro clinico piuttosto serio e che, tuttavia, non ha scoraggiato gli inflessibili ispettori UCI dal presentarsi per un test antidoping all’ospedale in cui Romo era ricoverato: il che ha significato non solo sottoporre un degente ad un prelievo di sangue da parte di personale esterno alla struttura sanitaria – fatto già di per sé grave, come spiegato dal nostro Kristian Perrone ne “La Tribuna del Sarto”  – ma ha anche comportato il rischio di esporre il paziente ad ulteriori, possibili complicazioni rispetto ad una situazione già delicata. Ebbene, non ci risultano prese di posizione in merito da parte di Hansen, se non un generico appello a tutti i corridori, formulato qualche settimana più tardi, a denunciare trattamenti poco rispettosi subiti ai controlli antidoping.

Magari, il massimo rappresentante mondiale dei corridori professionisti potrebbe anche alzare la voce di fronte ai pericoli a cui è quotidianamente esposto chi, sulle strade aperte al traffico, pedala per allenarsi, non facendo altro che il proprio mestiere. E in questo caso senza limitarsi a qualche tweet, che pure ha fatto, ma avviando un’interlocuzione diretta con la politica. Sarebbe bello sapere, ad esempio, se Adam Hansen è a conoscenza del disegno di legge per il metro e mezzo di distanza che, ormai da tempo immemore, giace nel dimenticatoio del Parlamento italiano: chissà se l’immarcescibile Cristian Salvato, presidente dell’ACCPI, gliene avrà mai parlato!

Per non parlare dei contratti vessatori a cui devono sottostare i corridori per i quali, in caso di positività, scatta automaticamente il licenziamento, con tanto di risarcimento dei danni ai team di appartenenza (e l’ultimo caso, in ordine di tempo, è quello occorso alla ciclista belga Shari Bossuyt appena pochi giorni fa), anime belle che di certo nulla sanno delle pratiche più o meno lecite dei propri tesserati, né tantomeno ne incentivano certi comportamenti. Figuriamoci! Ma perché, in questi casi, i gruppi sportivi possono sottrarsi allegramente al principio della responsabilità oggettiva – vale a dire quella responsabilità posta a carico del soggetto senza che a costui possa essere addebitata colpa o dolo – quando, invece, anche i più potenti club calcistici, in nome di questo stesso principio, vanno incontro a multe e squalifiche ogniqualvolta un loro tesserato venga pizzicato a vendersi delle partite?

Oppure, ancora, sarebbe bello che Adam Hansen aprisse quantomeno un dibattito sui regimi alimentari e le tabelle di allenamento sempre più asfissianti a cui i professionisti, oggi, sono costretti a sottoporsi. Fausto Coppi poteva permettersi di buttare alle ortiche un Giro d’Italia per un’indigestione di ostriche (o almeno, questo racconta la leggenda a proposito del quarto d’ora abbondante perso dal Campionissimo alla seconda tappa dell’edizione 1954), oggi un corridore farebbe carte false per mangiare un pacchetto di crackers in quelle (rare) giornate di scarico in cui, al massimo, per non correre il rischio di mettere su qualche grammo, come unico cibo solido gli è concessa un’insalata scondita. Con il risultato che molti ragazzi, anche promettenti, sempre più spesso appendono la bici al chiodo appena passati professionisti.

I corridori, in buona sostanza, sotto molti aspetti sono l’anello debole della catena. Eppure, al tempo stesso, sono l’unico attore imprescindibile, senza cui, banalmente, il ciclismo nemmeno esisterebbe. Assumere piena consapevolezza di ciò è il primo passo da fare, tutti insieme, per rivendicare un maggior potere contrattuale e un trattamento più dignitoso a tutti i tavoli – non solo, lo ribadiamo, quando giustamente si tratta di mettere in discussione una tappa del Giro d’Italia troppo pericolosa o meteorologicamente al limite. 

Io non so se questa possa chiamarsi coscienza di classe, e tutto sommato sarebbe utopistico aspettarcela proprio dai corridori, in una società atomizzata come quella in cui oggi tutti noi viviamo. Ma mi accontenterei che il gruppo avesse, perlomeno, la forza di mettersi una volta per tutte alle spalle quel senso di colpa che si porta dietro dagli anni ’90 e dai primi 2000. Da quando, cioè, per le tante vicende doping pessimamente gestite tanto sul piano della comunicazione, quanto su quello della governance, i corridori – unici tra gli sportivi – si sono guadagnati l’immeritata nomea di “drogati”. Una nomea che, ancora oggi, giustifica nei loro confronti delle forme di vessazione che, in qualsiasi altra disciplina, sarebbero (giustamente) impensabili.

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