Che dite, accorciamo il Giro d'Italia a due settimane?
No, ma non basta un ultimo atto spettacolare a fidelizzare il pubblico. E se ci si addormenta davanti al tappone dolomitico, non si sarà nemmeno invogliati a scoprire la grande bellezza del ciclismo al di fuori dei GT
Il Giro d'Italia conclusosi con il ribaltone di Primož Roglič ai danni di Geraint Thomas, sulle pendenze terribili del Monte Lussari, alla fine dei conti, si è risolto tutto in quell’unico giorno di gara. In una tappa indubbiamente spettacolare – tanto per l'esito quanto per il contorno, dal pubblico al paesaggio – ma che, praticamente da sola, ha scritto la classifica generale, la cui top 5 ha coinciso esattamente con quella di giornata. Un risultato non certo casuale ma, anzi, evidentemente cercato dall'organizzatore nel momento in cui, come e ancor più dell'anno scorso, si è deciso di concentrare nel finale le difficoltà maggiori di tutto il Giro: nel 2022 era stato l'arrivo sul Fedaia alla 20esima tappa, questa volta l'uno-due rappresentato dal tappone dolomitico con Giau e Tre Cime di Lavaredo a precedere, appunto, l'inedita cronoscalata al Lussari.
E quindi la domanda è: ne è valsa la pena?
Volendola risolvere con un rutto e una grattata di zebedei, potremmo limitarci a dire che, se l'intenzione è quella di tenere la classifica il più possibile corta fino alla fine, allora tanto varrebbe ridurre il Giro ad un paio di settimane, e recuperare così interi pomeriggi da dedicare ad attività più appaganti che restarsene spalmati sul divano in attesa che nulla accada. Perché, al netto delle mille variabili che possono indirizzare una gara a tappe in un senso o nell’altro, è chiaro ed evidente come percorsi di questo tipo siano il primo fattore a disincentivare qualsiasi velleità di attacco nei lunghi giorni di avvicinamento allo showdown conclusivo, a prescindere da come vengano disegnate le 18-19 frazioni precedenti. E tutto questo in ragione dell'equivoco di considerare l'incertezza sinonimo di spettacolo. Tutt'altro: se la classifica rimane corta, e sullo sfondo si staglia minacciosa la sagoma della Marmolada o delle Tre Cime, l'estremo equilibrio non potrà che tradursi in una corsa tatticamente bloccata.
Siamo dunque sicuri che questa spasmodica tendenza a lasciare le grandi gare a tappe in bilico fino alla fine sia cosa buona e giusta?
Il Giro d'Italia nel nostro paese, e più in generale il Tour de France a livello planetario, rappresentano il biglietto da visita del ciclismo agli occhi del pubblico generalista, eppure, tra le corse di vertice, spesso risultano essere proprio quelle più noiose. Scoraggiando la gran parte del pubblico dall’interessarsi a tutto quel po po di ciclismo che sta intorno ai grandi giri e che, in questi ultimi anni, è tornato a regalare spettacolo a piene mani.
Pensiamoci: la maggior parte dei nostri amici e conoscenti si interessa poco o nulla delle gare in bicicletta, e si fa beffe della nostra insistenza nel provare a convincerli di quanto invece sia bello e vario e completo e incerto e imprevedibile il nostro sport del cuore. Questi nostri amici, non fosse altro che per farci contenti, presi per sfinimento ad un certo punto decideranno pure di buttare un occhio alle corse. E secondo voi è più probabile che lo facciano in occasione della tappa regina del Giro, trasmesso in diretta sulla tv pubblica e rilanciato in lungo e in largo sui media o, ad esempio, di una Freccia del Brabante, corsa solitamente divertentissima, ma che è possibile scovare soltanto andando a spulciare nei più remoti anfratti delle piattaforme di settore, se non su improbabili ed illegali streaming fiamminghi?
Ecco, una volta messo davanti all'orrendo non-spettacolo del tappone dolomitico di quest'anno, in cui il gruppo ha passato in cavalleria Campolongo, Valparola, Giau (perfino il Giau, cribbio!), Tre Croci e metà abbondante delle Tre Cime, limitandosi a qualche schermaglia giusto nell'ultimo paio di chilometri, quali argomenti potremo opporre al nostro amico, giustamente incazzato con noi per avergli fatto buttar via un pomeriggio della sua vita? Come potrà mai crederci quando gli chiederemo di concedere al ciclismo una seconda chance e, magari, avere la pazienza di assistere a una Ronde o a una Roubaix?
Partendo da queste premesse, probabilmente, il nostro amico non arriverà mai ad avere contezza delle gesta di un Van Aert o di un Van der Poel nelle classiche, e nemmeno di quelle degli stessi Pogačar ed Evenepoel, a loro volta ben più accattivanti nelle gare di un giorno che non in quelle a tappe che – lo sloveno già oggi, ed il belga in prospettiva – rischiano di uccidere in culla, mettendo in ghiaccio il successo finale già dal primo arrivo in salita. E per quanto, d’altro canto, i due Van regalino spettacolo a piene mani anche nelle gare a tappe, è evidente che al profano, nei grandi giri, interessi soprattutto la lotta per la classifica generale, risultandogli molto più difficile cogliere il giusto valore delle imprese che certi fenomeni riescono a compiere nelle singole frazioni.
Ci piaccia o no, saranno sempre le gare a tappe il grimaldello per interessare il suiveur occasionale, perché solo queste hanno il vantaggio di ripetersi giorno dopo giorno e, dunque, di riuscire a fidelizzarlo. A patto, appunto, che quanto passa in televisione valga la pena di essere guardato. E che lo spettacolo, magari, inizi a dispiegarsi con qualche giorno di anticipo sul finale: tornando al Giro di quest'anno, se per quasi tre settimane la corsa non ha offerto spunti in grado di interrompere lo zapping compulsivo del telespettatore, averlo poi abbagliato con lo spettacolo del Lussari è servito solo a lasciarlo con l'amaro in bocca. Perché il divertimento, appena iniziato, era già finito. Come se, ai suoi concerti, Bruce Springsteen lasciasse esibirsi per due ore e mezza una band di spalla, salisse sul palco solo per cantare Born to Run e poi se ne andasse. Senza nemmeno un bis. Ce lo vedete, il Boss?
Ma al di là della pretesa di avere grandi giri in bilico fino alla fine, c'è un'altra prassi assolutamente deleteria che condiziona i percorsi di oggi: quella di prediligere un'unica e ben precisa tipologia di tappa, l'arrivo in salita, a scapito non solo delle cronometro ma, addirittura, anche di frazioni di montagna il cui traguardo sia posizionato nel fondovalle. Al Giro d'Italia di quest'anno non ce n'era neanche una che non si concludesse all'insù, e questo non ha fatto altro che scoraggiare ulteriormente qualsiasi interpretazione tattica differente dall'aspettare, aspettare, e aspettare ancora. E in questo caso l’organizzatore non può nemmeno nascondersi dietro all'alibi di dover subordinare il percorso ai desiderata delle località disposte a pagare la cifra più alta: perché spesso, all’interno dello stesso comprensorio, si può benissimo scegliere di posizionare il traguardo in piano, anziché in cima ad un pendio, senza per questo deludere le aspettative dell’amministrazione di turno.
Non solo: appiattendo tutti i percorsi sulla stessa tipologia di tappe, giocoforza anche le caratteristiche dei pretendenti alla maglia rosa (o gialla, o rossa) finiranno per coincidere, in un circolo vizioso che porterà ad un ulteriore livellamento dei valori e, quindi, ad una situazione in cui non conviene a nessuno fare la prima mossa. Oggi il fenotipo dell'uomo di classifica è uno e uno solo: quello di un corridore che deve saper andare forte, se non fortissimo, in salita, e a cui basta essere discreto sul passo perché, tanto, le cronometro sono talmente corte, e comunque mosse, da fare ben poca differenza tra chi è specialista e chi no. Se mai, premiano di più chi ha la gamba migliore, e spesso già coincide con cui va più forte anche quando la strada sale. Né si richiede più, a chi pedala per vincere un Giro o un Tour, di avere chissà quali doti di fondo, nel momento in cui le tappe sono sempre più brevi e gli sforzi richiesti per fare la differenza, sempre più esplosivi e limitati agli ultimissimi chilometri.
I big di classifica finiscono così per avere tutti all'incirca lo stesso peso, che si aggira intorno ai 63-64 chili con qualche minima variazione a seconda dell'altezza. Certo, tra loro c'è chi è più propenso ad andare forte sul passo e chi in salita (e infatti, questo Giro che restituiva un po' di dignità alla cronometro, ha attirato soprattutto i primi), ma nemmeno tra queste due tipologie ballano chissà quali differenze fisiche. Né, quindi, nel modo di dosare le energie e interpretare le corse.
Fino a venticinque o trent'anni fa, invece, c'erano gli Indurain di 80 chili abbondanti e i Pantani di 60 scarsi, e tutti e due partivano con l'idea di vincere il Giro ed il Tour. Con in testa, naturalmente, un piano d'azione radicalmente opposto, che portava gli specialisti delle cronometro a fare strage degli scalatori nelle prove contro il tempo (lunghe anche 60 o 70 km, e pornograficamente piatte come biliardi) e gli arrampicatori a dovere attaccare a fondo in montagna per recuperare le valanghe di minuti persi nell’esercizio individuale. Inoltre non erano ancora state sdoganate le pendenze in doppia cifra, e i rapporti da spingere erano ben più duri di quelli di oggi: tutti aspetti che premiavano le doti muscolari e di fondo, mentre nell'attuale era dell'agilità e dei marginal gains conta soprattutto il rapporto peso/potenza indispensabile a valicare certe rampe da ribaltamento, e che costringe i corridori a regimi alimentari nazisti nel tentativo di limare il loro peso forma fino all'ultimo grammo, manco fossero prosciutti da affettare un tanto all'etto. Oggi un Indurain, probabilmente, per essere competitivo dovrebbe riuscire a stare sotto ad un certo peso esasperato, con il rischio di non riuscire a reggere, mentalmente, più a lungo di una manciata di stagioni. Per averne una controprova, pensate a Wiggins e a Dumoulin, e a quanto (poco) sono riusciti a durare a certi livelli, nelle corse di tre settimane.
Poi, certo, le variabili che condizionano il successo di una grande gara a tappe sono molteplici. Nel caso specifico di questo Giro d'Italia, ad esempio, la precoce uscita di scena di Evenepoel ci ha senz'altro privato del leit motiv che andava profilandosi, e cioè quello dello spavaldo campione del mondo che arrivava baldanzoso in maglia rosa alle grandi montagne, atteso al varco da una pletora di avversari forti, esperti e sorretti da squadre solidissime come Jumbo, UAE ed Ineos, che certamente avrebbero orchestrato qualcosa per detronizzarlo. E in fondo, anche facendo pace con l'abbandono di Remco, il Giro sarebbe potuto andare incontro a ben altra storia se solo non si fossero ritirati, subito dopo, anche Alexander Vlasov e soprattutto Tao Geoghegan Hart. Il russo, infatti, era il capitano di una Bora che a quel punto sarebbe stata ancora a due punte – l'altra, naturalmente, era Lennard Kämna – e che già al Giro di un anno fa, inscenando l'attacco da lontano che rese splendida la tappa di Torino e poi ribaltando Carapaz proprio sul Fedaia, aveva dimostrato di sapere come si fa a terremotare (e vincere) una corsa. Quanto all'inglese, già maglia rosa a sorpresa nel 2020, la sua sopravvivenza in gara avrebbe indotto anche la Ineos, vale a dire la squadra più forte nella somma delle singole individualità, a fare una corsa d'attacco. Anziché diventare, in ragione della leadership in classifica ereditata da Thomas dopo il ritiro di Evenepoel, la principale artefice dello stallo messicano che ha poi condizionato l'incedere della carovana fino alle Dolomiti.
Naturalmente la sorte dei singoli big nell'arco delle tre settimane di un grande giro sfugge al controllo degli organizzatori, ma questi ultimi devono fare tutto quanto in loro potere per allestire una sceneggiatura che si presti ad una corsa il più possibile battagliata dall'inizio alla fine. Fatta salva, naturalmente, una sana dose di noia che è componente intrinseca ad uno sport che da sempre vive di lunghe e talvolta estenuanti, ma tatticamente interessantissime, attese. A patto, però, che qualcosa poi succeda, ogni tanto.