Antonio Tiberi © Trek-Segafredo
L'Artiglio di Gaviglio

Di cosa parliamo quando parliamo di giovani

Dalla malinconica leva ciclistica del ’90 ai baby fenomeni di oggi, passando per gli highlander Valverde e Nibali: ognuno ha la propria parabola temporale. Aboliamo gli Under 23 e al loro posto mettiamo le “Nuove proposte”: come a Sanremo!

09.02.2023 21:59

Tra i ritiri precoci di Fabio Aru e Tom Dumoulin e quelli annunciati di Thibaut Pinot e Peter Sagan, passando per le difficoltà occupazionali di Nairo Quintana e la mancata consacrazione di Romain Bardet, nei giorni scorsi si è molto parlato di una presunta maledizione della leva 1990, come se chissà quale strano sortilegio avesse tarpato le ali ad un’intera nidiata di talenti che, una decina d’anni fa, sembravano invece destinati a spaccare il mondo. In realtà ha poco senso cercare un nesso nelle vicende - diversissime - di ragazzi accomunati solo dall’anno di nascita, ma è pur sempre il pretesto per ragionare su cosa intendiamo, davvero, quando parliamo di giovani e di longevità agonistica.

Avere vent’anni senz’altro aiuta, ma non è condizione necessaria, e tantomeno sufficiente, per essere considerati giovani in senso assoluto. Perché lo sviluppo di ogni corridore, e più in generale di ogni atleta, può essere più o meno veloce e per le ragioni più diverse, dipendendo da un’infinità di variabili fisiologiche e ambientali. Sagan, appena passato professionista, iniziò subito a vincere a raffica: cinque successi il primo anno, 15 il secondo, 16 il terzo, e fra questi le prime tre tappe al Tour della propria carriera. 

Lo stesso Aru vinse la Vuelta a 25 anni, stroncando nell’ultima tappa di montagna il coetaneo Dumoulin, la cui piena consacrazione sarebbe invece arrivata un paio di stagioni più avanti, con il trionfo al Giro. Pinot e Bardet hanno fatto a sportellate fin dalle categorie giovanili, Quintana pareva destinato a diventare il primo colombiano a sfilare in giallo a Parigi ed invece, dopo essere salito tre volte sui gradini bassi del podio, s’è visto fare le scarpe da Bernal che, con il suo exploit in giallo del 2019, ha aperto la strada ai Pogačar e agli Evenepoel, mostri di precocità per colpa dei quali sono sembrati quasi banali, lo scorso anno, i successi dei 26enni Hindley e Vingegaard sulle strade d’Italia e di Francia.

Ma senza voler gufare nessuno dei fenomeni testé citati, proprio la malinconica leva ciclistica del ’90 può fungere da monito, agli occhi degli imberbi Remco, Tadej, Egan e compagnia, del fatto che ad un bruciante inizio di carriera possa corrispondere un altrettanto rapido declino. Perché indipendentemente da quanto dica la carta d’identità, è difficile restare sulla breccia per più di un decennio in uno sport ipercompetitivo come quello di oggi, nel quale pressione mediatica, preparazione esasperata e regimi alimentari strettissimi sottopongono l’atleta ad un logorio psicofisico difficilmente sostenibile nel lungo periodo. Ed è mai pensabile che gli allrounder Van Aert e Van der Poel possano mantenere i ritmi attuali ancora per molto, senza fondere il motore? Noi ce lo auguriamo, certo, ma è lecito pensare che presto il fuoriclasse indiscusso di ciclocross e strada sia costretto a mollare qualcosa. E che lo stesso possa fare Van der Poel (scusate, non ho resistito! :P).

E così il 34enne Primož Roglič, nato saltatore con gli sci e affacciatosi al professionismo solo a 27 anni, ciclisticamente parlando non è poi tanto più vecchio dei suoi – solo anagraficamente – più giovani colleghi, così come relativamente fresco era ancora Chris Horner quando, nel 2013, vinse a sorpresissima la Vuelta: certo, aveva quasi 42 anni, ma solo da otto era arrivato a correre a livello internazionale. Piuttosto, proprio il grande sconfitto di quella corsa, il nostro Vincenzo Nibali, è stato – lui sì! – uno dei più eclatanti esempi di longevità sportiva che abbiano attraversato il ciclismo nel nuovo millennio. Peraltro senza staccare mai la spina come, invece, per motivi tra loro simili, ad un certo punto delle rispettive vite professionali è toccato fare agli altri highlander del pedale: Alejandro Valverde, Óscar Sevilla, Francisco Mancebo e, naturalmente, il compianto Davide Rebellin. Tutti costretti a fermarsi per squalifiche doping che, in prospettiva, probabilmente hanno contribuito ad allungarne le carriere per almeno due ragioni: la voglia di rivalsa, indubbiamente, ma anche il tempo avuto per recuperare preziose energie fisiche e mentali durante il periodo di stop forzato. Un po’ come un computer ricondizionato.

Ciò che fa davvero la differenza, insomma, non è tanto il tempo che scorre, ma come lo si spende. E l’ultima cosa da fare è riversare sui giovani aspettative eccessive, magari in ragione degli scomodissimi paragoni con i baby campioni di oggi. Perché per un Evenepoel che illumina il cielo odierno, quanti sono i Popovych – e i Lagutin, i Duarte, i Sicard, i Grabovskyi, giusto per limitarci ai nomi di alcuni campioni del mondo Under 23 – di cui è costellata la Nebulosa del… Granchio? Quanti danni si fanno a spremere i ragazzi nella ricerca del massimo risultato fin dalle categorie giovanili con il risultato, arrivati finalmente tra i grandi, che i loro fisici e le loro teste non abbiano più nient’altro da mettere sui pedali?

Ha senso mettere in palio una maglia arcobaleno per gli Juniores e gli Under 23, se questa viene sfruttata soprattutto dai dirigenti per mettere una plusvalenza a bilancio nei medaglieri mondiali ed europei? A chi servono davvero quelle vittorie: ai diretti interessati o alle Federazioni? E, più in generale, ha senso una categoria – gli Under 23, sempre quella – che sempre più spesso viene fatta saltare in tronco (da Pozzato ad Evenepoel) o fatta fare per onor di firma, giusto quei tre-quattro mesi che servono a vincere un Giro Baby e poi via, a correre nel World Tour, come accaduto a Juan Ayuso? Allora non sarebbe meglio abbassare il limite di età ai 21 anni, ma rendendo obbligatoria almeno una stagione intera di militanza nella categoria? E magari riservare le maglie bianche dei grandi giri solo ai primi e secondi anni, evitando loro un confronto impari con gente che ha già in bacheca un paio di Tour o una Vuelta? Giusto per non fare nomi e cognomi, fa bene al nostro Antonio Tiberi, che fin qui ha seguito un percorso di crescita improntato ad una salutare gradualità, di cui peraltro iniziano a vedersi i frutti, essere messo in competizione diretta con Evenepoel, qualora venisse schierato al prossimo Giro d’Italia?

Questi sono i giorni del Festival di Sanremo e lì, forse, una cosa l’hanno capita: più che di Giovani in senso assoluto, sarebbe corretto parlare di Nuove Proposte, concorso che Andrea Bocelli ha vinto a 36 anni, mentre i Maneskin, quando un paio d’anni fa hanno fatto l’accoppiata Giro-Tour – ehm, Sanremo-Eurofestival – erano tutti ventenni.

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