L'ammiraglia Gazprom-Rusvelo nel 2021 © Wikipedia
L'Artiglio di Gaviglio

Libertà per gli sportivi russi e di ogni bandiera

Ad un anno dallo stop all’attività imposto dall’UCI nell’ambito delle sanzioni anti-Putin, il team RusVelo attende giustizia dal TAS. E noi con lui, nella speranza possa servire a scardinare un ban ipocrita e controproducente

23.02.2023 22:59

Domani sarà trascorso un anno dall’invasione dell’Ucraina che, tra le mille altre ripercussioni a noi ben note, ha portato nel giro di pochi giorni anche al ban pressoché totale dello sport russo: si sono salvati i singoli atleti attivi all’estero, ma praticamente nessuna squadra di qualsiasi disciplina, e a rimetterci sono stati anche i tesserati di altre nazionalità. 

Nel ciclismo, il caso più eclatante è stato quello della RusVelo, formazione Professional peraltro caratterizzata da una forte componente italiana tanto nello staff tecnico quanto nel parco corridori, sulla quale è subito caduta la mannaia dell’UCI che portò il direttore generale, Renat Khamidulin, alla messa in liquidazione della squadra già il 27 marzo 2022: a nulla, infatti, era valsa nemmeno la disponibilità del team ad eliminare qualsiasi riferimento al main sponsor – il colosso dell’energia Gazprom, azienda direttamente controllata dalla Federazione Russa, storico partner, tra gli altri, anche della Champions League e del club tedesco Schalke 04 – e gareggiare con divise totalmente bianche.

Tutto inutile: nel nome della condanna per l’aggressione alla vicina Ucraina, la Russia doveva scomparire anche dalla carta geografica dello sport. Tanto dal negare perfino la partecipazione degli atleti russi (e bielorussi) alle Paralimpiadi di Pechino iniziate proprio nei giorni immediatamente successivi l’inizio delle ostilità, o dal convincere gli organizzatori di Wimbledon, il più importante torneo tennistico al mondo, ad escludere dalla competizione anche chi, come la stella Daniil Medvedev, in quel momento addirittura numero 1 al mondo, si era già pubblicamente esposto in favore della pace e contro l’invasione voluta da Putin. 

Ma se i tennisti, in quanto atleti individuali e al netto del pur grave ostracismo ricevuto da Wimbledon, hanno comunque potuto continuare a gareggiare, la RusVelo è tra le tante realtà sportive finite distrutte nell’ambito delle sanzioni politiche ed economiche che Unione Europea e Stati Uniti hanno varato, a più riprese, nei confronti di Mosca. E adesso cerca giustizia al Tribunale Arbitrale dello Sport di Losanna, dal quale è lecito aspettarsi un pronunciamento il più presto possibile.

Nell’attesa – e nella speranza – che il ricorso RusVelo trovi accoglimento e possa, magari, innescare un domino tale da riabilitare altre squadre e altri atleti, c’è appunto da chiedersi quale senso abbia avuto estendere anche allo sport le sanzioni contro il Cremlino. Perché se è vero quello che i politici occidentali si sono precipitati a chiarire fin dal primo momento, e cioè che non siamo in guerra contro la Russia e non giudichiamo colpevole dell’aggressione il suo popolo, ma solo Putin e la sua cerchia, allora davvero non si comprende il senso di questo ban tout-court.

A prescindere da come la si pensi sul conflitto russo-ucraino, infatti, arrivare a prendersela con lo sport e perfino l’arte o la cultura di un intero paese non ci aiuterà certo ad attirarcene la simpatia e, anzi, farà il gioco dello stesso Putin e della sua propaganda del complotto e dell’accerchiamento. E dietro a questa serie di iniziative antirusse non c’è solo un’evidente montagna di ipocrisia ma, anche, una buona dose di supponenza: c’è, infatti, la convinzione che tutto il mondo, di fronte a quanto sta succedendo in Ucraina, la pensi come noi occidentali, e sia dunque scandalizzato per l’aggressione di un paese sovrano, giudicandola inaccettabile.

Nessuno, nelle capitali europee o a Washington, sembra porsi il problema che in Africa come in Medio Oriente, nell’America Latina come in India o nel Sud-est asiatico, si possa considerare tale invasione alla stregua di quelle ai danni di Afghanistan o Iraq, Libia o Palestina e, quindi, rimanere sostanzialmente neutrali non tanto per indifferenza verso il dramma del popolo ucraino, quanto per la semplice constatazione che i drammi di altri popoli, da quello siriano a quello curdo, dall’etiope al birmano, non hanno suscitato altrettanta compassione qui da noi.

E il discorso vale anche per paesi culturalmente vicini al nostro, come quelli sudamericani: perché mai un cileno, ad esempio, dovrebbe ritenere il tentativo di Putin di “denazificare” l’Ucraina peggiore di quello – peraltro tristemente riuscito – con il quale Pinochet “fascistizzò” il proprio paese, senza che gli Stati Uniti alzassero un dito o essendone addirittura complici? E perché ci si scandalizza se il padre di Novak Djokovic, cittadino serbo, sventola una bandiera russa agli Australian Open? Avrebbe forse dovuto agitarne una americana, in ricordo delle bombe sganciate su Belgrado poco più di vent’anni fa?

È facile vedere la propaganda altrui, molto meno rendersi conto di quella di cui la nostra stessa società è imbevuta: viviamo in una bolla di “valori” occidentali che ci impedisce di riconoscere punti di vista e ragioni differenti ma, su un piano storico, da considerare altrettanto legittimi senza bisogno di essere putiniani. La semplificazione è sempre nemica della verità e più si cerca di analizzare i fatti, di calarli nel loro contesto, più risulta difficile schierarsi “senza se e senza ma” per una parte. Ma anche se questo fosse possibile e se, per ipotesi, la Ragione fosse tutta dalla nostra, ebbene, anche in questo caso, quale sarebbe l’utilità di una messa al bando dello sport e di qualsiasi altra manifestazione di una cultura nemica?

Non fosse altro che per ragioni utilitaristiche dovremmo infatti renderci conto dell’importanza di mantenere aperto un canale di dialogo, se non altro nello sport: intanto perché, da sempre, proprio lo sport rappresenta la più salutare valvola di sfogo per qualsiasi nazionalismo (meglio sfottere i francesi per la testata di Zidane a Materazzi e gli inglesi per l’Europeo vinto a casa loro, che annunciare da un balcone di Palazzo Venezia di avere consegnato ai loro ambasciatori una dichiarazione di guerra, tanto per capirci); e poi perché offrire una vetrina internazionale agli atleti di paesi nemici è l’arma più efficace per scardinare il sostegno interno di cui godono i regimi nostri avversari. Per Putin, infatti, è molto più facile delegittimare agli occhi della sua opinione pubblica un oppositore politico, che non l’eventuale presa di posizione di una stella dello sport. 

Immaginiamo che Medvedev avesse potuto gareggiare a Wimbledon, magari addirittura vincerlo e, prendendo il microfono nel momento della premiazione, avesse ribadito la sua condanna all’invasione dell’Ucraina: siamo sicuri che una simile esternazione avrebbe potuto incrinare il consenso interno all’”Operazione Speciale” ben più di qualsiasi analogo appello possa venire da un conclamato oppositore politico come, ad esempio, Aleksej Naval'nyj. D’altra parte, è esattamente quanto accaduto lo scorso novembre ai mondiali in Qatar, quando alla partita d’esordio la nazionale iraniana si rifiutò di cantare l’inno, in solidarietà con le manifestazioni di protesta al regime degli Ayatollah che, già da mesi, agitavano il paese. E pensare che, anche in quel caso, c’era stato chi alla vigilia dei mondiali aveva (stupidamente) invocato l’esclusione dell’Iran!

Agli sportivi russi, invece, questa tribuna è stata negata fin da subito, con il risultato di consegnare alla propaganda putiniana anche loro: basti ricordare i medagliati olimpici fatti sfilare sul palco della grande manifestazione del 9 maggio, data che in Russia viene celebrata solennemente, ogni anno, in ricordo della vittoria nella “Grande guerra patriottica”, ovvero sia la Seconda Guerra Mondiale. E dunque siamo stupidi, dicevamo, ma anche ipocriti: perché se davvero pensiamo sia giusto cancellare lo sport in quanto potenziale strumento di propaganda in mano ad un regime avverso, allora, per coerenza, dovremmo fare opera di damnatio memoriae anche per tutti i casi in cui, nel nostro stesso passato, regimi altrettanto criminali hanno piegato i campioni del tempo alla propria propaganda. 

Se, in buona sostanza, vogliamo essere credibili agli occhi del popolo russo e di tutti i paesi che ancora non hanno preso una posizione rispetto a questo conflitto, allo scopo di portarli dalla nostra parte, iniziamo col fare un gesto eclatante. Riscriviamo l’albo d’oro della più importante competizione internazionale, i Mondiali di calcio, depennando dall’elenco dei vincitori l’Italia fascista dei Mondiali 1934 e 1938 (questi ultimi giocati, addirittura, in camicia nera) e magari anche l’Argentina del '78, quella dei Mondiali di casa disputati sotto la dittatura dei Colonnelli. Oppure facciamo come se l’Olimpiade di Berlino 1936 non ci fosse mai stata! Sarebbero iniziative coerenti con il ban a qualsiasi squadra russa e la cancellazione della bandierina accanto al nome di questo corridore o di quello sciatore, non credete? 

Oppure no, torniamo in noi stessi: ripartiamo proprio da Berlino ’36, ricordiamoci della figura di merda che “quel nero” di Jesse Owens fece fare al regime nazista in casa sua, vincendo quattro medaglie d’oro nell’atletica leggera proprio sotto agli occhi di un Hitler impietrito. E rendiamoci conto di quanto è potente il messaggio che lo sport, se lasciato libero di esprimersi, può lanciare.

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