Jonathan Milan, uno dei protagonisti di questo avvio di Giro d'Italia 2023 © Giro d'Italia
L'Artiglio di Gaviglio

Clamoroso: l’oste dice che il suo vino non è buono!

Hanno destato scalpore le critiche di Alessandro Fabretti allo spettacolo offerto dal Giro nelle prime tappe: è il capodelegazione Rai, chi altro dovrebbe pensare a rendere il racconto tv più avvincente?

11.05.2023 20:13

Al netto del breve intermezzo targato Fininvest di metà anni ’90, nell’immaginario collettivo Giro d’Italia e Rai rappresentano da sempre un tutt’uno. Da sempre, perché questo legame affonda le radici addirittura ai tempi dell’EIAR, l’Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche, che raccontava le imprese di Coppi e Bartali sulle sue frequenze prima ancora che venisse inventata la televisione. “Un uomo solo è al comando, la sua maglia è biancoceleste…”, vi dice qualcosa?

E sorvolando sul fatto che la produzione e distribuzione internazionale, dallo scorso anno, compete ad un altro broadcaster, per il grande pubblico il Giro d’Italia sta alla Rai come ci stanno il Festival di Sanremo e le partite della Nazionale. Che a sparare sulla corsa rosa, dunque, sia stato nientemeno che il capodelegazione della tv pubblica, e per giunta appena al secondo giorno di gara – come se ci si dovesse aspettare chissà cosa fin dal pronti-via – ha lasciato tutti esterrefatti: come se l’oste ci stesse dicendo che il suo vino non è buono. Dal palco del Processo, infatti, già alla seconda tappa Alessandro Fabretti ha lamentato la noia delle primissime frazioni e, all’indomani, è tornato sull’argomento sbattendo in faccia al direttore di gara, Mauro Vegni, le sue ricette per rivitalizzare lo spettacolo.

Ebbene, prima ancora di entrare nel merito delle proposte sbandierate da Fabretti, vale la pena chiedersi il perché di questa polemica, per certi versi gratuita, e sicuramente tafazziana. Gratuita, perché denunciare la mancanza di spettacolo al secondo giorno di una gara di ventuno (!) sembra quantomeno prematuro. E tafazziana, perché il Giro d’Italia è un fiore all’occhiello della programmazione Rai, che al Giro dedica il palinsesto di una delle sue reti di punta, Rai 2, e dal Giro raccoglie ogni anno milioni di euro sotto forma di inserzioni pubblicitarie. Parlare male di un gioiello di famiglia, dunque, non è sembrata una grande idea: tanto più in questi termini, e considerato il pulpito da cui veniva la predica.

Perché se lo spettacolo latita noi polemisti da tastiera, che il Giro lo guardiamo spalmati sul divano, non abbiamo altra scelta che l’invettiva. Ma chi quello spettacolo ha il privilegio di raccontarlo in tv non può poi lamentarsi della scarsa riuscita come se non ne fosse corresponsabile, e scaricare la colpa sul modo in cui vengono disegnati i percorsi, o sulla scarsa competitività di alcune delle squadre al via. È infatti assurdo pretendere che tutte le tappe di un gran tour siano battagliate dall’inizio alla fine, comprese quelle di pianura che si risolvono nella scarica di adrenalina della volata finale ma, prima, sono fatalmente condizionate da lunghe fasi di bonaccia.

Aspettarsi ogni giorno duelli all’arma bianca sarebbe come volere da ogni partita di calcio l’epopea di Italia-Germania 4-3, o dell’ultima finale mondiale. E d’altra parte, se ogni giorno succedesse di tutto, alla lunga, sarebbe come se non succedesse mai niente, perché verrebbe meno il portato dell’eccezionalità e, nel caso particolare del ciclismo, verrebbe meno quell’attesa che serve a preparare le rare – ma, proprio per questo, preziose – giornate di battaglia campale, quelle che entrano dritte nella storia nel momento stesso in cui si dispiegano davanti ai nostri occhi.

Pantani che stacca Ullrich nella tormenta del Galibier, Froome che schianta Yates sullo sterrato delle Finestre, Pogačar che spiana le pietre al Giro delle Fiandre: se tutti i giorni assistessimo a una roba del genere, alla lunga finiremmo per stancarcene, e pretendere sempre di più per soddisfare la nostra libido. Sta dunque alla bravura di chi confeziona il prodotto televisivo, costruire un racconto capace di interessare lo spettatore anche nei momenti morti. Anzi, soprattutto nei momenti morti. E se poi non se ne è capaci, si può sempre fare a meno delle dirette integrali e vivere felici. A patto, poi si saper spiegare alla Rete perché non si è stati capaci di valorizzare il palinsesto e accontentare tutti gli inserzionisti.

Detto questo, andiamo a vedere, nel merito, le proposte di Fabretti per un ciclismo più spettacolare: in primis, il nostro chiede di ridurre i chilometraggi delle tappe di trasferimento e, comunque, di prevedere sempre qualche salita nella prima parte di gara, e magari degli abbuoni sostanziosi che invoglino i big a darsi subito battaglia. Ora, a patto di non voler trasformare il ciclismo in un'altra cosa, e di ridurre ad un criterium quello che dovrebbe essere, invece, la massima esaltazione del fondo e della resistenza, una tappa non potrà mai essere più breve di 140-150 km. E quindi, anche nella migliore delle ipotesi, avremo sempre almeno tre ore di noia a cui rassegnarci, in certi pomeriggi interlocutori. Gli stessi abbuoni, quanto dovrebbero essere corposi per stanare gli uomini di classifica a centinaia di chilometri dal traguardo? Quanto a mettere più salite nelle fasi iniziali: innanzitutto non possiamo abolire la Puglia o la Bassa padana e ad ogni modo, se c’è un’edizione del Giro ricca di frazioni mosse nelle prime battute, è proprio quella di quest’anno, nella quale i piattoni sono appena due: la Pergine Valsugana-Caorle e la passerella di Roma.

Fabretti ha poi avuto da ridire sullo scarso valore delle squadre invitate tramite wild card, auspicando al loro posto un sistema di qualificazione subordinato ai risultati conseguiti: se ne facciamo un discorso di merito sportivo possiamo anche essere d’accordo, ma parlando invece di spettacolo, se ci sono squadre interessate ad animare anche i giorni di stanca, queste sono proprio le Professional invitate che, spesso, non hanno né l’uomo di classifica né il velocista. E quindi fanno di tutto per piazzare sempre un proprio corridore nella fuga e si scannano per quelle classifiche secondarie che, al contrario, poco interessano ai top team. Rinunciare a queste squadre, dunque, significherebbe avere ancora meno di che raccontare.

E in fin dei conti, il vero punto è ancora un altro: la spettacolarità di un grande giro non è data dalla somma delle singole tappe, ma dalla sua risoluzione, così come un romanzo non ha colpi di scena ad ogni capitolo, ma tiene avvinto lo spettatore alternando tempi e velocità del racconto. Allo stesso modo, un grande giro deve essere considerato nel suo insieme, per cui la noia di oggi può produrre lo spettacolo di domani: far mettere ai corridori chilometri e chilometri nelle gambe non è un esercizio di sadismo fine a se stesso perché, anche se lì per lì può sembrare solo una perdita di tempo, serve a far emergere i veri valori nella terza, fatidica settimana. Le stesse cronometro, che nel ciclismo di oggi rischiano di fare la fine dei panda o degli orsi polari, servono a scavare quei solchi in classifica che poi costringono gli scalatori ad attaccare a fondo in montagna, proprio per recuperare il tempo perso rispetto agli specialisti.

Prima di criticare un grande giro, insomma, bisognerebbe avere la pazienza di vedere come va a finire. Pensiamo al Tour de France 2011, quello della favola di Thomas Voeckler, balzato in testa alla classifica andando in fuga sul Massiccio Centrale alla fine della prima settimana, e rimasto in giallo fino al penultimo giorno sulle Alpi, anche grazie a prolungate giornate di no contest tra i big. Nel mezzo, infatti, c’erano stati i Pirenei più noiosi di sempre, durante i quali il massimo della vita erano stati gli scattini di Andy Schleck negli ultimi 500 metri. Ma poi, in due giorni sulle Alpi, è accaduto il finimondo: l’impresa solitaria dello stesso lussemburghese sul Galibier; all’indomani lo showdown scatenato da Contador a oltre 100 km dall’arrivo dell’Alpe d’Huez; ed infine il gran ribaltone che vide Cadel Evans strappare a Schleck, nell’ultima crono, la maglia appena conquistata. In definitiva uno dei Tour più belli del nuovo millennio, e tutto grazie agli ultimi tre giorni di corsa.

E allora, caro Fabretti: se non hai argomenti non preoccuparti di accorciare le tappe. Piuttosto accorcia i Processi, alle tappe.

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