Tadej Pogacar e Jonas Vingegaard al Tour de France 2023 © A.S.O.-Pauline Ballet
La Tribuna del Sarto

Lo sport moderno è un laboratorio scientifico, e ciò è naturale

La sfida stellare tra Vingegaard e Pogacar ha fatto emergere punti di forza e limiti dell'uno e dell'altro, e il Tour de France ha aggiornato come ogni anno il mondo sullo stato dell'arte relativamente agli ultimi ritrovati tecnici

22.07.2023 16:20

Negli scorsi giorni, qui alla Tribuna del Sarto, ci siamo domandati se la sfida tra Vingegaard e Pogačar potesse rivoluzionare la programmazione per correre un grande giro. Da un lato una periodizzazione, quella del danese, perfettamente calibrata per il Tour de France, contro una preparazione rivoluzionata (improvvisata) dall’infortunio alla Liegi-Bastone-Liegi del corridore di Komenda.

Fino alle rampe del Col de la Loze, la differenza tra i due fuoriclasse è stata “reale”, non o poco influenzata dal diverso avvicinamento alla corsa; la stessa cronometro dello sloveno, infatti, non può essere considerata fallimentare con oltre un minuto di distacco al terzo classificato, ma dalla 16esima e 17esima tappa si è aperta una voragine in classifica tra i due campioni.

Partiamo dall’analizzare il Tour di Vingegaard.

Il corridore della Jumbo-Visma ha pagato una piccola crisi sulla salita verso Cauterets-Cambesque, probabilmente frutto del grande sforzo del giorno precedente sul Marie Blanque, un vero e proprio fuori-giri che ha tolto per qualche giorno qualche watt al danese. Come avviene in allenamento, ad un grande sforzo fisico corrisponde una super-compensazione, che arriva con una latenza più o meno lunga.

Ammesso che la tesi del fuori-giri sul Marie Blanque sia corretta, il merito di Vingegaard è che è riuscito a recuperare i Watt persi nel corso di una lunga e dura corsa a tappe e, soprattutto, giusto in tempo per le due frazioni decisive, la cronometro e la tappa di montagna con oltre 5000 metri di dislivello. Certo non stupisce che un già vincitore di un Tour de France abbia doti di recupero eccezionali, ma la sua prestazione nella prova contro il tempo è stata davvero straordinaria, fenomenale. 

Altrettanto sorprendenti sono state le sue dichiarazioni alla fine della tappa a cronometro; nelle quali non ha biasimato chi abbia avuto sospetti sui suoi risultati, auspicando anzi che si tenga alta l’attenzione verso il doping, ma l’attuale maglia gialla garantisce che i suoi tempi sono solo frutto di ricerca e cura di ogni minimo dettaglio, oltre che del suo talento.

Tra le mille illazioni ed accuse di doping a Vingegaard, non ce n’è una che abbia messo al centro la salute del ciclista danese: l’unica preoccupazione è la veridicità del risultato sportivo. Dopo 55 anni di anti-doping si è fermi sempre allo stesso punto: un atleta oggetto, un feticismo della merce. Così non se ne esce.

Essere increduli ed aver stupore davanti ad una prestazione atletica straordinaria è legittimo, ma liquidare sempre tutto con l’accusa di doping dimostra, per l’ennesima volta, che non si accetta la realtà: lo sport moderno è un laboratorio scientifico ed il confine tra ciò che è lecito e non (doping-no doping) è solo una frontiera storica culturale (il confine divide, la frontiera regola).

Se i performance enhancing utilizzati sono legali, se gli strumenti (bici, ruote, abbigliamento con fibre che regolano meglio la temperatura) sono consentiti e registrati, non c’è “doping”. Si può, invece, discutere della disparità di accesso alle innovazioni tra le varie squadre, che ovviamente correla fortemente con gli investimenti economici. È già difficile immaginare un salary cap, figuriamoci quanto possa essere complicato equiparare gli investimenti nella ricerca e nei materiali (la Formula 1 ci prova con risultati discutibili).

E poi, perché lo sport non deve premiare l’innovazione (ovviamente lecita), la capacità di portare l’atleta al suo limite prestazionale, senza comprometterne la salute? Personalmente ritengo irreale uno sport moderno senza ricerca, “a pane ed acqua”; sarebbe contro la sua stessa natura simbolica, culturale e storica.

Il punto è porre dei giusti limiti che proteggano la salute del professionista, non stabilire un’ipotetica equità di accesso alle conoscenze, che poi per mille canali riescono comunque sempre a diffondersi. La lealtà sportiva deve rimanere garantita dal fatto che un prodotto, ribadisco lecito, sia disponibile a tutti (la diversa accessibilità economica è un problema politico, non sportivo). Un disequilibrio nella conoscenza, invece, non può essere considerato sleale, anzi è perfettamente congruo con la natura dello sport moderno, una competizione nella competizione.

Tornando al Tour 2023 ed a Tadej Pogačar, sul Col de la Loze abbiamo assistito ad una vera e propria crisi, il conto di una preparazione raffazzonata a causa della frattura al polso di aprile; invece, la caduta all’inizio della 17esima tappa, più che la vera causa del largo distacco poi accumulato, è stata una premonizione di una cattiva giornata.

A questo punto possiamo provare a rispondere alla domanda che ci eravamo posti nell’articolo precedente: “Se vince Pogačar tutto il ciclismo cambierà allenamenti?”. Apparentemente possiamo ora dire di no, non cambierà.

Alla fine i nodi sono arrivati al pettine, i volumi di allenamento mancanti hanno fatto sì che la batteria si sia scaricata prima del dovuto. Certo è stato un Tour corso pancia a terra fin dall’inizio, le cosiddette tappe di trasferimento non hanno dato tregua alle gambe, e, come è anche giusto che sia, il fondo ha prevalso, chi ne ha di più sta portando la maglia gialla a casa.

C’è un però. Il vincitore del Fiandre 2023 è comunque secondo in classifica generale al Tour, con un vantaggio di 3’10" sul terzo, il suo compagno di squadra Adam Yates, e di 4’26" sul quarto, il talentoso spagnolo Carlos Rodríguez Cano. Quindi il dubbio è che abbiamo avuto semplicemente la prova che Vingegaard sia il più forte corridore a tappe del momento, con o senza l’infortunio di Pogačar alla Liegi.

Sarà compito dei preparatori atletici della UAE leggere ed interpretare bene i dati dello sloveno. Anche perché già il prossimo anno avranno da prendere una decisione importante: puntare tutto sul Tour e sacrificare le classiche, oppure raggiungere un picco di forma in primavera e, perché no, provare a vincere almeno il Giro, vista la superiorità conclamata del corridore danese alla Grande Boucle?

Pogačar ha dimostrato di non essere un corridore che rifiuti la sfida, che si pieghi ad una sconfitta sportiva senza prima dare il massimo, lo si ama molto proprio per questo, ma allo stesso tempo ha fatto capire che punta a vincere più competizioni possibili, e certo il Giro d’Italia e le classiche (oltre quelle che ha già vinto) non possono e non dovranno mancare nel suo palmares.

Rimodulare la preparazione, stavolta senza infortunio, potrebbe garantire successi nelle corse di primavera ed al Giro, provando allo stesso tempo a rimanere competitivo per la corsa francese, dove comunque troverebbe sempre un Vingegaard tirato a lucido probabilmente superiore di lui.

Laddove ve ne fosse bisogno, questo Tour ha confermato tutta la classe e forza del corridore sloveno, per nulla ridimensionato; è stato in grado di combattere una battaglia epica, sul filo dei secondi, fino alla cronometro di Combloux; è l’unico corridore al mondo ad aver staccato per tre volte in salita il miglior Vingegaard e, nello stesso tempo, aver dato grandi distacchi a tutti gli altri corridori di altissimo livello.

In conclusione, non possiamo aspettarci una rivoluzione negli allenamenti nei prossimi anni, ma ogni cambiamento inizia sottotraccia e i dati del Tour di Pogačar potrebbero nascondere soluzioni ed idee innovative per la preparazione atletica delle grandi corse a tappe future.

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