
Quanto vale questo gioco: professionisti e amatori non giocano partite diverse
Una riflessione all’indomani di una tragedia alla Granfondo BGY: nel ciclismo il rischio non dipende dal contratto, ma dal contesto e dalle scelte collettive
Nell'ultima settimana si è riacceso il dibattito sulla sicurezza nel ciclismo amatoriale, in seguito a una tragedia avvenuta durante una gara amatoriale, la Granfondo BGY, con partenza e arrivo a Bergamo, dove domenica 4 maggio Michele Negri, atleta del team MP Filtri, ha perso la vita in seguito all'impatto con un muro che delimitava una curva in discesa nell'abitato di Berbenno.

Tra le molti opinioni emerse, una in particolare, rilanciata da un articolo di Bike Italia, ha suscitato discussioni: la proposta di eliminare il format della Granfondo dal ciclismo amatoriale, trasformando le corse in challenge con tratti in salita cronometrati. Verrebbero così eliminati gli annessi rischi derivanti dal far affrontare a centinaia o spesso anche migliaia di amatori discese che non possono essere messe in sicurezza da cima a fondo, riducendo drasticamente i pericoli.
Perché lo stesso rischio è più accettabile nel professionismo?
Per quanto sia legittimo per gli organizzatori valutare soluzioni diverse, e per chi partecipa alle competizioni preferire un format piuttosto che un altro, c'è qualcosa che non convince, ovvero il principio alla base della proposta: la distinzione tra il rischio accettabile per i professionisti e quello per gli amatori. È un principio discutibile, che merita di essere messo in discussione. Come mi pare opinabile, sempre riferendomi all'articolo di cui sopra, il giudizio squalificante ("un mondo che ha iniziato a degenerare") perché un amatore sceglie di dedicarsi all'allenamento quasi quanto un professionista: non si capisce a che titolo ci si possa permettere di considerare sana o degenerata la dedizione di uno sportivo (per non parlare della retorica del doping come sintomo dell'esasperazione, come se esistesse a ogni livello solo da pochi anni). Ma non è il giudizio il punto.
L’idea sottesa è che, poiché gli amatori pedalano per diletto, dovrebbero evitare di esporsi a situazioni pericolose; mentre per i professionisti, essendo pagati per correre, il rischio sarebbe più giustificato o quantomeno accettabile. Ma questa visione finisce per legittimare un principio ambiguo: che il lavoro renda comprensibile, o persino necessario, mettere in gioco la propria incolumità, mentre la passione no. Un ragionamento che suona come una forma di moralismo produttivista, dove la vita umana sembra avere un prezzo più o meno alto a seconda del contesto in cui si rischia, e, in definitiva, di quanto si viene retribuiti per farlo.
Scaricare la responsabilità sui corridori è lavarsene le mani
Attribuire poi la responsabilità della sicurezza unicamente ai comportamenti individuali – sostenendo che l’amatore dovrebbe “capire da solo” dove rallentare – non è sufficiente. È evidente che la prudenza personale è importante, ma affidarsi solo al buon senso dei singoli non può essere la strategia di un’organizzazione. In eventi con migliaia di partecipanti, la sicurezza deve essere garantita in modo sistemico e non delegata alla coscienza dei partecipanti: i problemi strutturali di sicurezza sono diffusi a ogni livello: non sono più frequenti tra gli amatori che tra i professionisti, anzi, tra i primi sono un numero quasi esiguo rispetto alla quantità di competizioni e atleti impegnati.
Il problema va inquadrato in una riflessione più ampia. È evidente che il rischio non può essere eliminato del tutto, e che una certa dose di imprevedibilità fa parte del ciclismo. Tuttavia, ciò non può tradursi in una rassegnazione passiva. Anche sapendo che è impossibile rendere sicuri 200 km di percorso, è inaccettabile che alcuni tratti notoriamente pericolosi di una Granfondo che mantiene lo stesso percorso da decenni non siano adeguatamente segnalati o protetti. Le condizioni del manto stradale, sempre più degradato, costituiscono ormai un fattore di rischio a sé stante, soprattutto nel contesto italiano, e non possono essere ignorate: se è aumentata la velocità delle bici, anche la condizione delle strade ha inciso sul coefficiente di rischio. Chi scrive era alla partenza della corsa dove è avvenuta la tragedia, e si sente di spezzare una lancia per l'organizzazione, una delle poche che assicura strada chiusa dal primo all'ultimo partecipante ancora in gara. A quanto emergerebbe dalle testimonianze, sembra che il ragazzo abbia perso il controllo del mezzo passando sopra un rattoppo di asfalto che potrebbe avergli fatto perdere la presa. Uno dei mille rattoppi e delle mille altre buche che si trovano sulla strada.
Si investe sulla prestazione, mai sulla protezione
A questa criticità si aggiunge una contraddizione lampante: mentre si investe costantemente per migliorare le prestazioni dei mezzi – al punto che molte biciclette amatoriali superano per qualità quelle con cui si vinceva il Tour de France pochi anni fa – l'investimento sulla sicurezza dei corridori resta fermo a vent'anni fa, quando venne introdotto il casco obbligatorio (fatta salva l'introduzione dei tanto dibattuti freni a disco). Nessun progresso strutturale ha interessato l’equipaggiamento del ciclista: su questo punto, il nostro portale insiste da tempo: a ogni tragedia che avviene in gara, ci chiediamo se non c'era un modo in cui potessimo evitarla investendo sulle protezioni che indossano i ciclisti.
Esistono da tempo prototipi di dispositivi di protezioni avanzate, dai capi rinforzati ai sistemi di airbag integrati nei caschi e nell’abbigliamento. Ma questi progetti restano confinati nei reparti di ricerca e sviluppo, in parte per le difficoltà tecniche legate a peso e comfort (ci rendiamo conto di quanto sia difficile introdurre protezioni in uno sport dove il peso condiziona la performance e lo stesso piacere di andare in bicicletta), in parte perché mancano investimenti concreti: non c'è la volontà da parte di nessuno di sostenerli. Non interessano abbastanza né ai brand produttori, né ai professionisti, né agli amatori.
Finché sicurezza e marketing non si incontreranno, è difficile immaginare un cambio di rotta. Tuttavia, l’assenza di soluzioni adottate non equivale all’impossibilità di trovarle. Piuttosto, dimostra che, finora, non si è davvero voluto cercarle.
Chi scrive esprime un punto di vista personale, ma frutto anche di riflessioni condivise da tempo dalla redazione di questo portale, che ha interpellato e scomodato nel tempo numerosi addetti ai lavori a riguardo. Un'opinione maturata anche attraverso il confronto con chi domenica scorsa era al via di quella corsa, e con i membri della Popolare Ciclistica — da sempre attenta alla sicurezza dei ciclisti — insieme ad altre realtà del territorio bergamasco.