
Le proteste alla Vuelta ci ricordano (ancora una volta) che lo sport è politica
Una contestazione necessaria per uno sport più inclusivo e più giusto
I Paesi Baschi hanno sempre fatto dello sport un terreno politico, un segno identitario che travalica il significato agonistico: un’occasione per riconoscersi e farsi riconoscere.
Non stupisce, quindi, che proprio qui si siano verificate le proteste più accese ed efficaci contro la partecipazione di una squadra israeliana alla Vuelta.
Non ha senso negare l'intreccio tra sport e politica
Ciò che stona, piuttosto, è lo stupore di ciclisti, addetti ai lavori e tifosi che vedono invaso dalla “politica” il loro mondo dorato, chiedendo a gran voce che lo sport resti impermeabile a fatti ben più grandi; che non si approfitti della visibilità di una competizione per portare istanze di protesta, magari anche legittime (e ci mancherebbe, davanti a migliaia di morti innocenti, colpevoli solo di appartenere a un popolo, con lo scopo di eliminarlo: definizione di genocidio), ma che - a loro dire - non c’entrano nulla con una corsa o una partita.
Non solo c’entra, ma centra: quelle proteste colpiscono esattamente il bersaglio. Lo sport è sempre stato terreno ideologico e politico, usato dal potere e dal contro-potere. Negarlo è come negare la lotta di classe: significa lasciare mano libera ai ricchi di combatterla impunemente, senza dialettica.
Piaccia o non piaccia, lo sport è questo; lo è sempre stato e lo è, sempre di più. Le tecniche di sportwashing sono sempre più sofisticate; le istituzioni sportive siedono al tavolo della politica e prendono decisioni che, inevitabilmente, rispecchiano i governi di turno. È parso normale e anche giusto che, poche ore dopo l’invasione russa dell’Ucraina, la Russia sia stata esclusa dalle competizioni governate dall’Occidente. Lo stesso Occidente che decide di adottare un atteggiamento completamente diverso nei confronti di Israele.
In una fase storica di sconvolgimento geopolitico, lo sport resta un terreno in cui l’egemonia atlantica è solida e spesso sorda alle istanze opposte o lontane dalla sua linea ideologica. Non solo: lo sport è particolarmente veloce nel recepire i mutamenti politici nel mondo atlantico.
L’elezione di Trump ha avuto effetti rapidi su un tema delicatissimo per il CIO: la questione di genere. Dal 1° settembre 2025, World Athletics ha reintrodotto i test genetici — test SRY sul cromosoma Y — per determinare il sesso delle atlete. Un grande passo indietro: quei test furono abbandonati dopo le Olimpiadi di Atlanta 1996 a causa delle numerose false positività.
La scienza ci insegna che le DSD (differenze dello sviluppo sessuale) non sono disordini e che maschile e femminile sono i due estremi di uno spettro della sessualità che, in natura, presenta molte variabili non riducibili a un semplice test.
Non è scopo di questo articolo addentrarsi nell’aspetto tecnico; qui interessa ricordare, soprattutto a chi si scandalizza per la presunta strumentalizzazione politica di una protesta, che — se mai servisse ribadirlo — lo sport è politica.

I tempi sono maturi per uno sport democratico e inclusivo
Sarebbe ora, piuttosto, di pretendere che lo sport sia davvero democratico, inclusivo ed ecologico: non perché “fa bello” dirlo, né sulla base di valori spesso sbandierati solo sulla carta, ma perché, all’interno della nostra società, è a tutti gli effetti un terreno di dialettica e di lotta. Trattarlo come una sovrastruttura secondaria è, oltre che un ingenuo errore nel valutarne il potere pratico e ideologico, un lasciare campo libero a forze che ne sfruttano appieno il potenziale, con ricadute inevitabili sul resto delle questioni sociali e economiche.
Della maschera perbenista e “pura” che copre la vera natura dello sport non abbiamo bisogno. Smontare quella narrazione, pezzo per pezzo — anche protestando contro la partecipazione di una squadra a una corsa — ha le sue ragioni: non fermerà nessuna guerra, lo sappiamo, ma riapre un terreno dialettico su cui combattere, lavorare e costruire una società migliore e più askatasuna (libera).