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Eritrea, la nuova potenza del ciclismo africano

22.03.2020 16:26

Michael Tkue ci porta alla scoperta di ciò che c'è dietro ai successi di Teklehaimanot, Berhane, Kudus e Tesfatsion: i collegamenti con l'Italia sono molteplici


Il 2010 è l'anno in cui sulla scena del ciclismo africano si affaccia di prepotenza una nuova nazione. In quella stagione i Campionati Africani su strada erano in programma a Kigali in Ruanda nel mese di novembre ed il protagonista assoluto della rassegna - che era giunta alla sua sesta edizione - è stato un ragazzo eritreo di 22 anni che risponde al nome di Daniel Teklehaimanot: prima di allora l'Eritrea non era mai riuscita a conquistare una medaglia e Teklehaimanot rompe il tabù guidando il paese a ben tre medaglie d'oro (strada, crono e cronosquadre) e nel giro di dieci giorni si aggiudica anche il Tour du Rwanda. Da quel momento il ciclismo eritreo entra in una dimensione: guardando solo alla categoria uomini élite, nelle ultime nove edizioni dei Campionati Continentali sono arrivati sette ori nella prova in linea, sei nella cronometro ed un'imbattibilità nella cronosquadre che dura ancora oggi.

Nel 2012 Daniel Teklehaimanot ha fatto il proprio debutto nel World Tour con la maglia dell'allora Orica-GreenEDGE e negli anni a seguire altri corridori lo hanno raggiunto nella massima categoria o in quella immediatamente sotto. L'attuale stop alle gare ha fatto slittare i Campionati Africani previsti a fine mese a Mauritius, ma anche in questo inizio di 2020 i corridori eritrei hanno saputo essere splendidi protagonisti: tre vittorie di tappe ed il secondo posto nella generale (per appena 1") alla Tropicale Amissa Bongo in Gabon, il secondo posto al Trofeo Laigueglia e finalmente il grande successo ottenuto al Tour du Rwanda da Natnael Tesfatsion al termine di un'ottima prova corale di tutta la Nazionale.

L'Italia ha occupato pagine importanti nella storia dell'Eritrea ed inevitabilmente anche la nascita, lo sviluppo e l'esplosione del ciclismo eritreo sono legati in qualche modo al nostro paese. Proprio in occasione del Tour du Rwanda abbiamo volevo provare a conoscere meglio tutto quello che c'è dietro alla generazione d'oro di questi ragazzi africani. A guidarci alla scoperta del ciclismo in Eritrea è Michael Tkue, ex corridore classe 1981 che è stato per anni tra i più rappresentativi del paese (c'è anche il suo nome nell'albo d'oro del Tour of Eritrea) e oggi consigliere tecnico della federazione, preparatore e direttore sportivo qualificato.

Michael, partiamo da lontano: quando è arrivato il ciclismo in Eritrea?
«La grande passione che abbiamo in Eritrea è legata ovviamente al periodo coloniale: sono stati gli italiani ad introdurre il ciclismo nel paese attorno agli anni trenta [la Federazione locale è stata fondata nel 1936, ndr]. Adesso è senza dubbio lo sport più popolare anche per il fatto che tutti o quasi hanno una bicicletta come mezzo di trasporto: se non sei bravo ad andare in bicicletta, specialmente tra i bambini, tutti ti prendono un po' in giro; è come un tabù non saper andare in bici. Io penso che uno dei segreti del successo del ciclismo in Eritrea è che è parte della nostra cultura perché, come ho detto, tutti "devono" pedalare su una bicicletta, se non sai farlo hai difficoltà o rischi di essere emarginato: molte famiglie incoraggiano i bambini anche piccoli, poi quando iniziano le scuole elementari è comune motivare i figli promettendo un bici nuova in caso di voti buoni. Poi il governo tratta abbastanza bene lo sport e sul secondo canale riusciamo a vedere in diretta corse come il Giro d'Italia ed il Tour de France: durante l'usanza della Cerimonia del Caffè non è isolito guardare le gare e discutere del ciclismo, interessa a tutta la popolazione, anche le donne».

Negli ultimi 10 anni però c'è stato un salto di qualità come risultati internazionali, cosa è cambiato?
«La storia del nostro ciclismo è legata a quella del nostro paese: le cose hanno iniziato a cambiare con l'indipendenza [dichiarata nel 1991 e riconosciuta nel 1993] prima e con la pace [nel 2000, anche se la fine delle tensioni con l'Etiopia risale al 2018] poi. Già nella seconda metà degli anni '90 c'era una grande passione per il ciclismo e quando hanno iniziato ad arrivare le gare, sono arrivate anche le prime due squadre più organizzate: a quel tempo avevo 15-16 anni e ricordo belle rivalità tra la Tele (oggi EriTel) e la Red Sea. Il proprietario della Red Sea era molto appassionato, viveva in italia, per questo era così interessato a costruire ciclismo in eritrea, questo è stato fondamentale. Poi un'altra grande spinta l'ha data la Federazione lanciando nel 2001 il Tour of Eritrea, una gara a tappe da cinque a otto giorni, a seconda delle edizioni: con nuove corse sono arrivate anche nuove squadre, come la AsBeCo».

Tanta gente all'arrivo del Campionato Eritreo 2010 © Facebook/Michael Tkue Tanta gente all'arrivo del Campionato Eritreo 2010 © Facebook/Michael Tkue[/caption]

Possiamo dire che Daniel Teklehaimanot sia stata la prima stella del ciclismo eritreo?
«Sicuramente Daniel è stata una brillante leggenda del ciclismo eritreo, ma prima di lui altri corridori di grande livello. Tra gli anni '50 e gli anni '70 abbiamo avuto ciclisti eritrei che hanno partecipato ai Giochi Olimpici [da Melbourne 1956 a Monaco 1972 ce ne sono stati diversi, come Tekeste Woldu, sebbene negli annali risultino appartenenti all'Impero d'Etiopia]. Poi alla fine degli anni '90 ci sono stati anche alcuni ciclisti eritrei che hanno corso in Italia: uno molto forte era Dawit Mehari tra gli juniores, uno più grande ma che sapeva distingueri in salita era invece Desalegn Negash; un altro da ricordare è Daniel Abraham, che era uno dei migliori ciclisti eritrei e adesso sta correndo nel paraciclismo nei Paesi Bassi. Teklehaimanot è andato ad allenarsi al centro dell'UCI in Svizzera e nel 2010 ed è esploso, ma dieci anni prima c'erano stati altri ottimi corridori, che però non sono conosciuti perché non hanno fatto notizia nei media: le nuove star sono Daniel, Merhawi [Kudus] o Natnael [Berhane], ma prima tanti ciclisti sognavano di diventare magari come Dawit Mehari».

Oggi come è strutturato il ciclismo in Eritrea?
«Le prime gare da giovanissimi si fanno in mountain bike, ma noi non viene intesa come in tutto il resto del mondo: la distinzione è più che altro per il tipo di bicicletta perché noi la MTB iniziato ad utilizzarla pedalando e gareggiando in pianura, su asfalto; tutti i nostri giovani talenti hanno iniziato così, anche io sono passato da queste gare che di solito si disputano il sabato. Poi crescendo si passa alla strada: adesso nella categoria allievi abbiamo circa 80-90 ragazzi, e altrettanti tra gli juniores; i più provengono dalla regione centrale che è quella con il clima migliore. Il giorno per le gare su strada è la domenica, e cerchiamo di combinare assieme corse per tutte le categorie: ovviamente questo fa sì che le gare si disputino su distanze un po' più brevi, ma gli allenamenti dei ragazzi nel giro della Nazionale vengono fatti principalmente pensando alle competizioni internazionali, per essere pronti anche a tappe di 200 km e questo è il modo migliore per ottenere risultati».

I nomi di alcune squadre sono già stati citati in precedenza
«Esatto, al momento i team più forti sono la EriTel e la AsBeCo, poi ci sono alcuni club più piccoli ma la maggior parte dei ciclisti gareggia come "isolati": ovviamente gli squadroni cercano sempre di ingaggiare quelli che mostrano il potenziale maggiore e quelli che si mettono più in evidenza. Queste squadre riescono a pagare uno stipendio ma come avviene un po' ovunque nel ciclismo, gli sforzi ed i sacrifici rischiesti non corrispondono poi al guadagno. In generale l'aspetto economico è sempre abbastanza complicato, perché per prima cosa abbiamo bisogno di materiali ed attrezzature adeguate, soprattutto per questi giovani talenti, e poi dobbiamo curare l'allenamento, la preparazione e l'alimentazione: in Eritrea abbiamo diversi nutrizionisti professionali, ma abbiamo bisogno di più tecnici che sappiamo analizzare le prestazioni da un punto di vista scientifico, sfruttando i misuratori di potenza e tutto quello che è disponibile».

Per ottenere risultati in campo internazionale, serve anche uno staff preparato ed esperto: cosa è stato fatto in questi anni?
«Molti tecnici sono stati formati con l'aiuto della Solidarietà Olimpica: alcuni sono andati ad imparare facendo stage all'estero, altrimenti il Comitato Olimpico Eritreo ha collaborato e collabora con la Federazione di ciclismo per portare insegnanti ed esperti che potessero tenere corsi per preparatori, commissari, massaggiatori, meccanici e tutte le figure di cui abbiamo bisogno. Come vedete, i nostri ragazzi stanno facendo un lavoro straordinario, ma ancora dobbiamo e possiamo alzare il livello e migliorare le nostre conoscenze in molti aspetti per competere con gli standard mondiali».

Il lavoro della squadra nazionale invece come è organizzato?
«Per la Nazionale, la Federazione cerca di collaborare con il commissario tecnico ed i direttori sportivi per avere sempre obiettivi a medio e lungo termine: per quest'anno, ad esempio, abbiamo studiato un calendario ed un piano di lavoro per arrivare ai Giochi Olimpici il più pronti possibile. Poi ovviamente per partecipare alle gare 2.1 come in Gabon o in Ruanda dobbiamo affidarci ai migliori se vogliamo essere competitivi, ma non amiamo un sistema troppo chiuso: se vediamo le convocazioni, infatti, accanto ad un gruppo "fisso" c'è sempre almeno un elemento nuovo che possa testarsi a fare esperienza [Mehari Tewelde in Ruanda, Robel Michael in Gabon]. Possiamo scegliere anche in base ai percorsi che ci aspettano, se il terreno è pianeggiante possiamo selezionare passisti e velocisti, se il terreno è di montagna abbiamo buoni scalatori: e poi come abbiamo detto nelle categorie giovanili abbiamo tanti corridori pronti a sbocciare, è un sistema che si alimenta sempre».

I talenti che abbiamo ammirato quest'anno sono tutti molto giovani, dove possono arrivare?
«Se prendiamo la squadra del Tour du Rwanda, hanno tutti 19 o 20 anni, a parte Sirak Tesfom che è un po' più grande. Il mio augurio a lungo termine per questi talenti è che possano trovare squadre internazionale che li ingaggino. Prendiamo l'esempio di Sirak, è un corridore completo che va bene in salita, in pianura e a cronometro, ma non ha mai avuto la possibilità di correre per una squadra Professional o Continental; è un problema anche di altri ciclisti eritrei. Dovrebbe essere un processo continuo di crescita: si inizia come isolati, poi si passare alle squadre locali, poi alla nazionale e poi serve fare nuove esperienze per migliorarsi».

Da quello che abbiamo avuto di capire in questi anni, dietro a questa mancanza di possibilità di potrebbe essere il problema dei visti
«È proprio così, la difficoltà nell'ottenere alcuni visti è la minaccia principale per questi ragazzi; è un problema serio perché sono sicuro che ci sarebbero molte squadre professionistiche desiderose di mettere sotto contratto qualcuno di loro, ma se il visto viene negato tutto viene vanificato e non se la sentono di rischiare. Anche tramite il Centro Mondiale del Ciclismo di Aigle riusciamo ad ottenere molti inviti per i nostri atleti, ma non riusciamo a sfruttarli tutti proprio per questo motivo. Adesso con la Francia e con l'Italia sembra che inizi ad andare un po' meglio e la speranza è che nei prossimi anni tutto diventi più agevole».

Sappiamo anche in passato c'è stato qualche tentativo di creare una squadra Continental in Eritrea, è vero?
«Assolutamente, io stesso ho questo sogno e avevo lavorato ad un progetto. Tutto è partito molti anni fa quando stavo discutendo con il Marco Polo Cycling Team per correre con loro: ma a quel tempo dovevo completare il mio servizio di leva e non sarei riuscito, però da lì è nata l'idea di avere una squadra. Poi nel 2013 sono venuto in Toscana con i miei ragazzi della categoria juniores, siamo stati lì per circa 3 mesi: grazie a Paolo Traversi di Firenze avevamo il sostegno di alcuni sponsor italiani, avevamo il supporto della Vini Fantini di Citracca e Scinto e facemmo anche bene in alcune gare [una vittoria a Petrignano d'Assisi con Amanuel Mengis Ghebreindrias]. Poi però un po' per la mancanza di sponsor e per altri inconvenienti, il progetto è fallito. Ma la speranza di allestire una piccola squadra Continental, 8-10 corridori, c'è sempre: sarebbe importante per il ciclismo eritreo, perché in corse come Gabon e Ruanda potrebbero esserci sia la nazionale, sia la squadra Continental, raddoppiando il numero di ciclisti eritrei in gara».

Michael Tkue in Toscana coni suoi ragazzi juniores nel 2013 © Facebook/Michael Tkue Michael Tkue in Toscana coni suoi ragazzi juniores nel 2013 © Facebook/Michael Tkue[/caption]

Avete mai pensato di provare ad allestire una base in Europa per venire a correre più spesso qui?
«Era proprio quello che avevo in mente di fare io nel 2013. Molti organizzatori, soprattutto francesi, ci contattano spesso e ci invitano a partecipare ai loro eventi: noi però siamo costretti a chiedere il rimborso dei voli perché sarebbe troppo costoso per noi; se lo avessimo, niente di fermerebbe dall'essere presenti a queste gare, ma ovviamente capisco gli organizzatori. Avere una base fissa in Europa sarebbe importante a lungo termine, perché si tratterebbe di fare un volo di andata e uno di ritorno, ma in mezzo potremmo avere ad esempio tre mesi di gare di qua di là sfruttando i piccoli rimborsi che vengono dati alle squadre: sarebbe più facile e i nostri ciclisti farebbero ottime esperienze. Purtroppo però per iniziare servono fondi, e la mancanza di sponsor o di altre forme di incasso di penalizza: il governo supporta lo sport, ma bisogna tenere conto che ha anche altre priorità».

In precedenza abbiamo citato i Giochi Olimpici, altri obiettivi agonistici?
«Le corse dell'Africa Tour di inizio anno erano uno degli obiettivi principali dell'anno e siamo molto contenti di come è andata, poi in calendario abbiamo i Campionati Continentali Africani, appunto i Giochi Olimpici dove avremo due uomini e una donna nelle prove in linea, e un uomo nella prova a cronometro, e poi guarderei ai Campionati del Mondo. Cerchiamo di prepararci sempre molto bene per queste grandi rassegne internazionali: forse non saremo ancora al livello di lottare con i migliori, ma ogni anno cerchiamo di fare qualcosa per metterci in evidenza e fare la differenza sulla scena mondiale; se riusciamo a farci vedere lì, le squadre professionistiche saranno più fiduciose e motivate nell'ingaggiare i nostri ragazzi».

Per Tokyo 2020 si è qualificata una donna, come è la situazione del ciclismo femminile in Eritrea?
«Come ho detto, cerchiamo di organizzare gare per tutte le categorie, quindi anche per le donne. Per loro le difficoltà economiche si sentono ancora di più, perché non è solo una mancanza di fondi, ma sono proprio i materiali essenziali a scarseggiare, le biciclette o anche solo le maglie: ma anche qui stiamo crescendo, ma se riusciremo a trovare le attrezzature potremo farlo ancora più velocemente. Nella famiglia Debesay oltre ai quattro fratelli Frekalsi, Kindishih, Mekseb e Yacob c'è anche una sorella, Mossana, che ha corso per una squadra italiana, la Servetto: sono in cinque e tutti forti in bicicletta, sono incredibili».

Insomma, ancora una volta c'è un collegamento tra il ciclismo eritreo e l'Italia
«A tale proposito vorrei citare un mio ex allenatore italiano, Guido Camplani di Brescia: era un insegnante in una scuola italiana in Eritrea, ha dato un grandissimo contributo allo sviluppo del ciclismo nel paese, ha investito molto tempo e denaro, ha creato una squadra juniores, ha fatto davvero un grande lavoro nel periodo in cui è stato da noi. Ma l'influenza italiana è ancora forte nella cultura eritrea: la capitale Asmara è praticamente una città italiana, viene chiamata la Piccola Roma, ma gli italiani hanno costruito questo paese, hanno portato l'art déco, hanno investito per creare bellissime città e per fare grande questo paese. Ma in tanti in Eritrea come mai sembra che gli italiani ci abbiano dimenticato, come mai non vengano qui a visitare una parte della loro storia: un turista italiano che venisse in Eritrea sarebbe molto fiero dei suoi antenati. Sarebbe bello riuscire a creare un ponte tra i nostri paesi, magari anche per aiutarci a livello ciclistico: come detto, in Eritrea molti ciclisti corrono come isolati, magari se ci fosse qualche squadra italiana che ha delle divisi delle passate stagioni che non vengono usare potrebbe essere bello fornirle a questi ragazzi che da una piccola cosa potrebbero trovare nuove motivazioni: per loro sarebbe come correre in una squadra vera, se non possono vincere magari aiutano un amico dando anche di più di quello che avremmo. E poi sarebbe anche più spettacolare la vista del gruppo: da noi ci sono tantissime persone a bordo strada e vedere le gare, sì, sarebbe splendido».
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