Editoriale

"Senza radio è difficile": ai funerali del libero arbitrio

Un flusso di coscienza sull'inabilità tattica dimostrata da buona parte del gruppo nella prova mondiale di ieri e sul contesto culturale di cui questa corsa rappresenta forse un esito tanto indicativo quanto preoccupante

26.09.2022 19:50

Diciamocelo: la prova maschile élite del mondiale su strada di Wollongong è stata la sagra delle tattiche sbagliate e delle occasioni sfuggite. Si salvano soltanto, per ovvie ragioni, il vincitore Remco Evenepoel che ha fatto esattamente quello che avrebbe dovuto fare - ovvero mettersi nelle condizioni di poter fare un'azione solitaria dalla media distanza, quello che gli riesce meglio - e la nazionale kazaka, impersonata da Alexey Lutsenko, unico capitano ad entrare nel gruppo buono e seguire Evenepoel finché le gambe lo hanno sostenuto. Lascia invece perplessi il fatto che tutte le altre nazionali (o quasi) si siano accontentate di inserire nel tentativo gli uomini sbagliati, usandoli peraltro come alibi per non inseguire (abbiamo ampiamente ed analiticamente parlato di questo nell'articolo sulle pagelle).

E tutto questo si spiega con l'assenza delle radioline, un elemento che magicamente produce un insolito caos in occasione della prova iridata, dove la capacità tanto del CT quanto degli atleti in campo emerge con molta più chiarezza. Si potrebbe aprire una lunga digressione sul fatto che togliere le radioline pure dal resto delle corse forse garantirebbe maggiore spettacolo, ma va detto che sono stati spesi fiumi d'inchiostro sull'argomento, che peraltro appare quasi anacronistico nell'epoca ciclistica che stiamo vivendo. Però può emergere da questo mondiale un problema molto più profondo, forse intellettualistico, incarnato perfettamente dall'episodio forse più clamoroso di questo mondiale: il momento in cui i quattro inseguitori che si stavano giocando la medaglia d'argento è stato colpito da un climax di schiaffi, venendo passato in tromba prima da Eenkhoorn, poi da Tratnik e infine dall'intero gruppo che ha finito per giocarsi a sorpresa le medaglie rimaste. Tra di loro si trovava il nostro Lorenzo Rota (a cui in ogni caso va un grande applauso per la grande prestazione che ha messo sul campo, dimostrando un'ulteriore evoluzione) che nell'intervista rilasciata a caldo a Stefano Rizzato se ne è istintivamente uscito con un "Non so cosa dirti: purtroppo ci siam guardati; senza radio è difficile".

Proprio da qui si deve ripartire: "senza radio è difficile". Possibile che i ciclisti siano arrivati ad essere talmente tanto "radiolina-dipendenti" da non fare due conti su chi è alle loro spalle e capire che mettersi a fare surplace ad oltre 1 km dal traguardo equivale ad un suicidio? Eppure non è che fossero in fuga da 100 km, senza che nessuno li avesse informati del distacco: almeno i primi 2 che sono rientrati, si sono staccati pochissimi km prima sotto il forcing messo in atto dallo stesso Rota, quindi avrebbero dovuto sospettare che qualcuno (magari non esattamente chi) fosse abbastanza vicino da poter rientrare. E in ogni caso è abbastanza risaputo che iniziare a studiarsi a 1300 metri dal traguardo (dato evinto dall'attività caricata su Strava da Mauro Schmid) è un rischio incalcolabile, anche avendo più di 1' di vantaggio.

Questo piccolo caso tragicomico ci lascia intravedere un ciclismo in cui almeno una parte dei suoi protagonisti è ridotta allo stato di esecutore materiale di ordini, ormai priva di libero arbitrio e capacità di interpretare la corsa sul momento. Ed è evidente anche ascoltando altre dichiarazioni degli azzurri: da un lato Trentin confessa che forse sarebbe stato meglio inserire uno tra Bettiol e Bagioli nel tentativo; dall'altro Bettiol dichiara che Rota era chiamato ad entrare nelle fughe mentre lui e Bagioli dovevano seguire i più forti. Ne deduciamo che, nel momento in cui si è creato il cortocircuito di una fuga portata via da Evenepoel (ovvero uno dei più forti in gruppo), nessun azzurro ha avuto la personalità di interpretare la corsa con senso critico e capire quali fossero le priorità; e lo stesso ragionamento è tranquillamente applicabile anche ad altre nazionali. Questa dilagante incapacità di improvvisazione - qualità che per esempio ha reso grande Vincenzo Nibali in molte occasioni, Sanremo in primis - ha tutte le sembianze di una forma di analfabetismo funzionale applicata al ciclismo e ci lancia almeno verso due possibili osservazioni, una di breve termine ed una di lungo termine.

Intanto si può agevolmente suppore che il problema di base sia legato alle abitudini, o ancora meglio alle consuetudini. Usare le radioline per tutto l'anno evidentemente crea assuefazione e trasforma l'assenza di radioline in un evento straordinario. Ovviamente questo significa però anche che nella maggior parte delle squadre l'utilizzo delle radioline si sta forse trasformando in abuso, al punto da rendere gli atleti incapaci di intendere e di volere in autonomia. Significa che la radiolina sta diventando un joystick al servizio dei direttori sportivi che si trovano in ammiraglia, dunque non uno strumento di comunicazione, bensì uno strumento di comando. E questo possiamo dedurlo, non senza un po' di conscio catastrofismo, dalla massima secondo cui una persona abituata ad eseguire gli ordini di qualcun altro, spesso non è in grado di agire liberamente una volta liberata da questa dipendenza. E così un gruppo di attaccanti finisce per piantarsi in mezzo alla strada se non ci sono i direttori sportivi che con toni accesi li avvisano per radio che stanno rientrando gli inseguitori, esattamente come sulla Playstation un ciclista si pianta in mezzo alla strada una volta che il giocatore molla il joystick.

Se questa è la causa immediatamente riscontrabile, vale la pena però di buttare un occhio anche alla base del movimento ciclistico: cosa è stato insegnato agli attuali professionisti quando erano dei ragazzi che correvano nelle categorie giovanili? E qui viene da riflettere, quantomeno guardando in casa nostra, osservando il desolante panorama del nostro ciclismo giovanile. Non tanto desolante per i risultati in sé, quanto per la mentalità, lo svolgimento delle corse, il modo in cui questo sport viene interpretato da chi gestisce gli atleti nella fase di massimo apprendimento. Viene da riflettere quando già in corse di esordienti si vedono costruire treni per favorire la volata di qualcuno; e non faccio riferimento al sacrosanto principio - senza dubbio educativo - di darsi una mano tra compagni, che potrebbe portare un ragazzo a decidere in autonomia di tirare la volata ad un amico; qui faccio riferimento all'ordine impartito dal tecnico prima della partenza secondo cui la corsa si imposta solo su un ragazzo. Viene ancor più da riflettere quando in corse di allievi altimetricamente impegnative si vedono ragazzi fare il forcing per poi spostarsi bruscamente come farebbe un gregario di Froome della Sky dei tempi d'oro: significa che in questi casi i ragazzi sono dipendenti dalle indicazioni del direttore sportivo al punto tale da sacrificare completamente le proprie ambizioni, togliendosi pure la soddisfazione di portare a termine la gara (è bene ricordare che nelle categorie giovanili il tempo massimo è tenuto molto corto, in genere 2', per cercare di non ostacolare eccessivamente la normale circolazione veicolare; ergo nel momento stesso in cui ti stacchi sai di essere quasi matematicamente buttato fuori). Viene infine da riflettere osservando che questa casistica compone un quadro più generale di esasperato attendismo, molto più di quanto ce ne sia tra i professionisti, in cui tutti aspettano la volata: più di una volta si vedono corse di allievi chiuse a poco più di 30 km/h di media. E così capita che corse con arrivi posti in vetta a lunghe salite finiscano per vedere lo stesso volate di 30/40 corridori (provare per credere: è successo giusto una settimana fa a Castiglione dei Pepoli, 700 metri di altitudine, dove alle spalle dei due fuggitivi quasi 40 ragazzi si sono giocati allo sprint il 3° posto).

E questo che senso avrebbe? Quale utilità? Si può tranquillamente rispondere "nessuna". Mettere in campo questo genere di tattiche è diseducativo e controproducente per tutti. Un direttore sportivo che imposta così la corsa fa sì che tutti i ragazzi ridotti a fare gregari non imparino niente, oltre a non potersi togliere nessuna soddisfazione; che il presunto capitano a sua volta non impari niente, perché si abitua già da adolescente ad avere una squadra al suo servizio; infine fa sì che chi invece indica ai propri ragazzi di muoversi nei punti giusti ed avere un po' di inventiva, non abbia mai la speranza di raccogliere un risultato, perché perennemente rincorso dalle società che preferiscono puntare sulla volata. Risultato? Formiamo - o sarebbe forse meglio dire non-formiamo - dei ragazzi totalmente incapaci di interpretare la corsa e magari di inventarsela, anziché subirla o controllarla.

A questo si potrebbe aggiungere un dato ancora più strettamente tecnico, che ci porta leggermente fuori tema: alla fine emergono soltanto velocisti che scompaiono col passare delle categorie (perché molto spesso si scopre che non hanno le qualità di fondo necessarie per proseguire) e una manciata di talenti puri (il Tiberi e il Piccolo di turno) che sono in grado di vincere ripetutamente arrivando sempre da soli. Ma questa è un'altra canzon...

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Francesco Dani
Volevo fare lo scalatore ma non mi è riuscito; adesso oscillo tra il volante di un'ammiraglia, la redazione di questa testata, e le aule del Dipartimento di Beni Culturali a Siena, tenendo nel cuore sogni di anarchia.