
Ridateci il ciclismo noioso di dieci anni fa!
Lo strapotere di Tadej Pogačar fa sì che ormai le corse si assomiglino tutte, la tattica non conti più niente e il momento clou arrivi subito, condannandoci poi ad appisolarci sul divano in attesa dell’inno: sloveno
Dove eravate quando due aerei abbatterono le Torri Gemelle, l’11 settembre 2001? Ognuno di noi ha quel ricordo bene impresso nella memoria e rivede ancora oggi, come se fosse in diretta, il luogo in cui si trovava e le persone che aveva di fronte quando seppe dell’attentato al World Trade Center.
Allo stesso modo, ognuno di noi malati di ciclismo ricorda come se fosse ieri quando Alberto Contador, Andy Schleck e Cadel Evans se le diedero dal primo all’ultimo chilometro della stupenda 19ª tappa del Tour de France 2011, la Modane-Alpe d’Huez: eppure, quella era stata una Grande Boucle soporifera, nella quale il gruppo era sfilato in processione sui Pirenei e Thomas Voeckler – non esattamente Eddy Merckx – forte dei minuti guadagnati andando in fuga in un’assonnata e afosa domenica di luglio sul Massiccio Centrale, era arrivato a tre giorni da Parigi ancora in maglia gialla.

Ecco: proprio in ragione della noia mortale con cui erano trascorse le prime 17 tappe di quel Tour, il volo di Andy Schleck sul Galibier al 18º giorno e ancora di più, appunto, la battaglia campale inscenata l’indomani da Contador fin dai primissimi chilometri della frazione numero 19 hanno reso di abbagliante bellezza il ricordo della Grande Boucle 2011. E non c’è un appassionato di ciclismo che abbia dimenticato dove e con chi era in quello splendido weekend conclusivo, compresa anche la successiva cronometro nella quale Cadel Evans avrebbe poi sfilato la maglia gialla vestita da Schleck appena ventiquattr’ore prima.
Viceversa, se oggi vi chiedessero dove eravate “quella volta che Pogačar staccò tutti a cento chilometri dall’arrivo?”, probabilmente rispondereste con un’altra domanda: “Quale volta? Quella che dell’assolo alla Strade Bianche, o quell’altra che ha distrutto Bagioli per poi vincere in solitaria il Mondiale di Zurigo? O magari il Giro 2024 dominato in lungo e in largo? O forse l’ultimo Mondiale, vinto stroncando Remco sulla Val d’Enfer… ah no, scusate, quello era l’Europeo, il Mondiale era Kigali ma poco cambia…”?
Ecco, appunto: il paradosso a cui ci troviamo di fronte è che il ciclismo più spettacolare e memorabile degli ultimi quarant’anni – reso tale, in primis, proprio da Pogačar, ma anche certi assoli di Evenepoel e Van der Poel, nei rispettivi terreni di caccia, non sono da meno – in realtà sta partorendo, soprattutto negli appuntamenti clou, alcune delle corse più scontate e, in definitiva, soporifere, che si siano mai viste.
Tadej Pogačar e la fine dell'amarcord
Perché quando Tadej decide che è arrivato il momento di partire, non c’è nessuno che riesca a restargli in scia. E pazienza se mancano ancora più di cento chilometri al traguardo: ormai i precedenti sono tali e tanti che, perfino di fronte a quelli che fino a pochi anni fa sarebbero parsi degli azzardi senza senso, sappiamo invece che l’attacco dello sloveno andrà in porto con una percentuale di successo vicina al 100%. E lo stesso, come detto, vale spesso anche per Van der Poel, Evenepoel e perfino per Pedersen, nelle corse in cui ciascuno di questi assi è l’unico big assoluto al via.
Per carità: la portata di un campione come Pogačar è epocale e quelle che ci si spiegano davanti a ripetizione sono pagine di storia del ciclismo che avremo la fortuna di raccontare ai nostri nipoti. Ma, in cuor nostro, ammettiamolo: per quanto destinate a rimanere impresse negli annali, molte di queste corse sono ormai tremendamente scontate, e ripetitive.

E se la grandezza di questi fenomeni è manna per avvicinare lo spettatore occasionale al ciclismo, perché ne semplifica la comprensione di una disciplina altrimenti parecchio ostica ai profani, per lo stesso identico motivo questo appiattimento risulta però mortificante per noi veri nerd. Per noi, cioè, che abbiamo consumato i nostri anni migliori nella strenua (e spesso vana) speranza che succedesse qualcosa durante le tre settimane di Tour, o che una Sanremo o una Liegi si risolvessero a più di 5 km dall’arrivo. E che invece, oggi, rimpiangiamo quelle corse controllatissime, ingessatissime, chiusissime, nelle quali quel parossistico equilibrio da stallo messicano faceva sì che ogni singola pedalata al vento venisse soppesata chirurgicamente anche dal corridore più forte, per paura che quella briciola di sforzo extra gli bagnasse la polvere dell’unico colpo in canna.
Immobili, o forse no
Corse nelle quali la tattica diventava quindi decisiva, fondamentale, determinante: e in cui le lunghe ore di avvicinamento ai botti finali, che lì per lì scambiavamo per noia, in realtà erano riempite da mille elucubrazioni, ipotesi, previsioni – in definitiva: seghe mentali – che nel 99% rimanevano frustrate, è vero, ma che in quell’1% in cui trovavano invece riscontro nella realtà, ci facevano saltare sul divano e telefonare agli amici per intimargli di mollare qualsiasi cosa stessero facendo in quel momento, e accendere la tv.
E ad ogni modo, anche quando non succedeva niente fino alla fine – cioè quasi sempre –, è proprio alla fine che succedeva tutto: in quegli ultimissimi chilometri nei quali tutti o quasi i favoriti della vigilia erano ancora lì a giocarsela, e un buco o uno scarto fatti al momento giusto potevano fare la differenza tra la vittoria e la sconfitta. Pensiamo al Mondiale di Salisburgo, che Bettini vinse nella penombra di quel sottopasso ferroviario agli ultimi 600 metri, saltando sulla ruota di Zabel, Samuel Sánchez e Valverde e distanziando così in maniera decisiva gli spauracchi Boonen e McEwen. O a quel diavolo di Freire, che non vedevi inquadrato per sei ore e poi infilzava tutti sulla linea, se c’era da vincere una Sanremo o da rimettersi addosso una maglia arcobaleno.

Proprio i Mondiali – corsa in circuito e per nazionali, che dunque seguiva dinamiche uniche nel corso della stagione – erano la sublimazione di questo modo di approcciarsi al ciclismo: un rompicapo lungo ore, in cui cercare di interpretare ogni minimo movimento in testa al gruppo, ogni pur insignificante rimescolamento, inquadrandoli nella prospettiva di ciò che sarebbe potuto succedere nel finale. E poi le farfalle nello stomaco che ti prendevano al suono della campanella – din din din, ultimo giro! – il momento più atteso di tutta una stagione.
E oggi, invece? Oggi proprio i Mondiali sono la corsa maggiormente svilita dalla tirannia pogaciariana, perché quando il biondino vuole, prende e se ne va. Senza che nessuno, da Remco in giù, abbia niente da opporgli. E sì, per carità, magari i suoi avversari potevano muovere meglio i gregari in quel punto o provare a sorprenderlo in quell’altro: ma la verità è che Tadej avrebbe vinto lo stesso, lo sappiamo noi a casa e lo sanno benissimo anche tutti loro, in gruppo. Con buona pace della tattica, morta e sepolta sotto le pedalate del più forte ciclista di tutti i tempi.
E allora sì: era meglio annoiarsi un intero pomeriggio, in cambio anche soltanto di quel quarto d’ora di pura libidine finale che sapevi ti avrebbe comunque ripagato, o del clamoroso (allora sì) scontro da lontano, che non sapevi assolutamente come sarebbe potuto andare a finire e per questo ti avrebbe tenuto incollato allo schermo. Piuttosto che assistere, ormai, sempre allo stesso film, in cui la scena madre arriva subito, ai -100, e sai già come andrà a finire: dopodiché puoi pure cambiare canale, o appisolarti placidamente sul divano fino all’inno nazionale. Sloveno.