L'arrivo vincente di Jonas Vingegaard sul Tourmalet © Jumbo-Visma
L'Artiglio di Gaviglio

Corridori, su la testa quando vi accusano di doping!

Le recenti giustificazioni di Vingegaard per un controllo saltato nel 2019, o il tempo che ci è voluto ad Ullrich per ammettere l’uso di sostanze, la dicono lunga sulla subalternità mediatica e politica del ciclismo sull’argomento

23.11.2023 17:29

A volte non ci si rende davvero conto di cosa significhi essere dei corridori: da una parte i soldi, la fama e la gloria (comunque per pochi); dall'altra i sacrifici, le rinunce e tutto il corollario strappacuore che appartiene al repertorio retorico di ciascuno sport, certo, ma sulla vita del ciclista professionista pesa un carico ulteriore. E cioè la continua e incessante esigenza di dover ribadire, in ogni momento, la propria estraneità al doping, la propria "pulizia". Senza invece la minima possibilità di argomentare, contestualizzare, provare a ragionare su un piano più complesso. E finendo così per essere obbligati a giustificarsi con il cappello in mano, se non a mentire o a tacere del tutto, onde evitare di darsi la zappa sui piedi da soli.

Perché da almeno un quarto di secolo a questa parte – diciamo a partire dallo scandalo Festina esploso al Tour 1998 – sui corridori pesa un marchio d'infamia che a distanza di tanto tempo, e tanta strada fatta, agli occhi della stampa generalista e di conseguenza dell'opinione pubblica – ma, ancora troppo spesso, anche agli occhi della stampa di settore che, pure, sul tema dovrebbe essere più informata, e disincantata – risulta indelebile. Fino a prova contraria, il corridore è semplicemente "un dopato", e sotto questa luce viene letta e interpretata qualsiasi prestazione "fuori dal comune" e dunque “sospetta” che, in qualsiasi altra disciplina, sarebbe invece considerata semplicemente "straordinaria", senza alcuna accezione negativa (e giustamente).

La più lampante dimostrazione di questo assunto si ebbe nel 2013 all'indomani della vittoria di Chris Froome sul Mont Ventoux, dove in effetti l'anglokenyano scavò distacchi importanti tra sé e la concorrenza, ma senza registrare tempi di scalata neanche minimamente paragonabili a quelli dei ruggenti anni '90. Eppure, vuoi per quella sua frullopedalata così sgraziata e ritenuta improbabile, vuoi per l'esplosione così improvvisa del suo talento un paio di anni prima alla Vuelta, la Gazzetta dello Sport ebbe il coraggio di uscirsene con una scandalosa prima pagina che accostava l'impresa di Froome alla notizia della positività (conclamata!) di mezza nazionale giamaicana della velocità di atletica leggera, arrivando ad affermare che la prestazione del corridore della Sky sarebbe stata addirittura più sconcertante del doping - ripetiamo: accertato! – dei centometristi caraibici.

Ma perché rivangare una storia vecchia di dieci anni e straconosciuta ai più? Perché è proprio l'attualità ad avere riportato in voga certa riflessioni e d’altra parte in questo periodo dell’anno, in assenza di gare, anche tra gli addetti ai lavori è forte la tentazione di rispolverare gli evergreen. Tant'è, in due distinte interviste uscite questi giorni Jonas Vingegaard ammette di aver saltato un controllo nel 2019 e Jan Ullrich confessa di essersi dopato, sostanzialmente, per tutta la carriera.

Partiamo proprio da Jan, esponente di spicco di quella generazione maledetta a cui l'indignazione pubblica non ha risparmiato nulla, quanto a gogna mediaticaIntervistato da Stern, il vincitore del Tour '97 ha riconosciuto solo ora il ricorso al doping nell’ambito dell’Operación Puerto perché, ha spiegato, «nel 2006 non potevo parlare perché non volevo essere un traditore: se avessi parlato avrei trascinato molte persone con me». A convincere il tedesco a tacere, allora, furono i suoi avvocati: «Ho seguito il loro consiglio, ma ne ho subìto le conseguenze per molto tempo. Non è stato facile restare in silenzio per tanti anni. Il mio passato pesava molto sulla mia anima» e magari, aggiungiamo noi, proprio questa impossibilità di aprirsi ha contribuito allo sviluppo di quella dipendenza da alcol e cocaina di cui tanto si è scritto e che, fortunatamente, oggi Ullrich sembra aver superato (anche grazie, fra parentesi, al supporto ricevuto da quel reietto di Lance Armstrong).

Comprensibile, proprio ripensando al clima da caccia alle streghe di quegli anni, che Jan ci abbia messo così tanto ad aprirsi. Mentre fa girare le scatole che anche uno dei più grandi corridori del momento, Jonas Vingegaard, sia a sua volta costretto sulla difensiva, peraltro a fronte di un fatto davvero risibile: il danese ha infatti ammesso al quotidiano Ekstra Bladet di aver saltato un controllo nel 2019. «Avevo lasciato inavvertitamente il cellulare in cucina e il campanello di casa non funzionava. Quando sono arrivati gli ispettori hanno provato a chiamarmi ma io non ho sentito suonare e non ho potuto rispondere», ha spiegato: un inconveniente banalissimo, che però la dice lunga sullo stato di polizia a cui i corridori hanno accettato di assoggettarsi pur di dimostrare di essere più limpidi del sederino di un bébé.

Perché è questo che l'opinione pubblica si aspetta da loro. Da loro e da nessun altro, a quanto pare, risultando spesso molto più incline ad accettare le giustificazioni – e, appunto, le contestualizzazioni – fornite da altri sportivi: sia che si parli di doping, sia, magari, di altre "umane debolezze" che inducono i nostri poveri calciatori a scommettere sulle partite della loro stessa squadra, cavandosela con pochi mesi di squalifica e un percorso di recupero dalla ludopatia. Perché loro sono malati, mica delinquenti come quei drogati dei ciclisti!

Ma tornando a Vingegaard: che uno dei più forti corridori del proprio tempo, dominatore da due anni del Tour de France e fresco vincitore del Vélo d'Or e cioè l’equivalente del Pallone d'Oro, nella stessa intervista si affretti poi a riconoscere che «non è bello avere un controllo mancato sul proprio statino, ovviamente ci penso e farò in modo che non si ripeta una disavventura del genere» poiché tre controlli saltati nell'arco di 18 mesi equivalgono ad una positività e comporterebbero quindi una lunga squalifica, la dice lunga sulla debolezza politica dei ciclisti. O ce lo vedete, voi, Messi, a cospargersi così platealmente il capo di fronte ad un episodio del genere, e a promettere alla maestra che l'incidente non si ripeterà più? Ma figuriamoci se i calciatori accetterebbero mai di sottoporsi a questo regime di controlli! E avrebbero ragione a rifiutarsi, intendiamoci!

D'altra parte, i più attenti si ricorderanno forse il caso dei calciatori del Brescia Mannini e Possanzini, arrivati in ritardo ad un controllo e per questo inizialmente squalificati per un anno, sì, ma poi ben resto condonati dal TAS, o addirittura lo sdegnato rifiuto dell'eroe nazionale Ringhio Gattuso (e del collega Pancaro) a sottoporsi ad un test incrociato sangue-urine, senza incorrere in nessuna conseguenza. Dall'altra parte, invece, come dimenticare la disavventura capitata a Kevin Van Impe, che ebbe i suoi bei problemi con i commissari Wada a giustificare la mancata accoglienza dei solerti commissari antidoping ad un test solo perché all'obitorio a piangere la morte del proprio figlio nato prematuro. O quella, recente, dello spagnolo Javier Romo che, dopo una brutta caduta alla Vuelta al País Vasco di quest'anno, in cui riportò la frattura della mascella con conseguente perdita di liquor encefalico, venne comunque sottoposto ad un prelievo dagli inflessibili ispettori direttamente presso l'ospedale dove si trovava ricoverato.

Tutto questo è inaccettabile, lo diciamo da tempo, e i ciclisti sbagliano ad avallarlo: perché la dignità della persona viene prima dello sportivo, e perché comunque nessuno di loro si è mai macchiato di un crimine tale da giustificare un simile accanimento. Non è certo il caso di dilungarci ancora sulle infinite sfaccettature del significato di doping e sulle differenze tra questo e ciò che, invece, viene considerata semplicemente "medicina sportiva", dunque lecita.

L'importante è che l'intero movimento abbia un sussulto di orgoglio ed esiga di non esser più trattato come un ricettacolo di appestati. Altrimenti non ne usciremo mai, e testate acchiappa-click come Fanpage (di cui qui non riportiamo volutamente il link: tiè!), per restare alla stringente attualità, continueranno a sentirsi autorizzate ad uscirsene con titoli come "Ciclismo nel panico, scoperto un nuovo doping impossibile da rilevare" e un sottotitolo ancora più ipocrita, che recita: "Allarme rosso nel mondo del ciclismo e nello sport in generale: è stata isolata una molecola..." eccetera eccetera.

Davvero, Fanpage? "Allarme nel mondo del ciclismo e nello sport in generale"? E perché allora, volendo fare comunque del sensazionalismo un tanto al chilo, non parlare direttamente di "sport in generale"? Maledetti!

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