Jonas Vingegaard sta dominando il Tour de France 2023 © Jumbo-Visma
L'Artiglio di Gaviglio

Vingegaard più forte dei luoghi comuni (e pure di Pogačar)

Indipendentemente dalla cotta di Tadej sul Col de la Loze, il fuoriclasse danese si appresta a vincere con pieno merito il suo secondo Tour de France, alla faccia di chi gli vuole male e oggi rosica

21.07.2023 13:58

Ora che la cotta di Tadej Pogačar sul Col de la Loze ha messo la parola fine alla lotta per la maglia gialla al netto di incredibili (e comunque sempre augurabili, ai fini dello spettacolo) stravolgimenti, magari anche i più accaniti tra i tifosi dello sloveno saranno disposti ad ammetterlo: Jonas Vingegaard si sta accingendo a vincere il suo secondo Tour de France con pieno merito. Quello che però, in tanti, faticano ancora a riconoscere è il valore, assoluto, del corridore danese.

Già, perché se sulla classe di Pogačar i pareri sono pressoché unanimi – e non sarà certo l’amaro epilogo di questa Grande Boucle a metterne in discussione la grandezza – quando si parla di Vingegaard i distinguo si sprecano: «Eh ma, sono buoni tutti a vincere il Tour puntando solo a quello!». «A me, non mi emoziona!», «È telecomandato dall’ammiraglia, pare un automa!», «Vince solo perché ha la squadra più forte!» e addirittura c’è chi arriva a definire Jonas un succhiaruote, ad accusarlo di non attaccare mai e, secondo il più classico dei cliché, di essere soltanto un dopato.

Cerchiamo, allora, di smontare uno per uno i tanti luoghi comuni che aleggiano attorno al Re Pescatore e che lo accomunano, in questo senso, allo scetticismo riservato in anni recenti ai trionfi in giallo targati Sky, dal sigillo di Bradley Wiggins a quello di Geraint Thomas, passando per il poker di Chris Froome.

Non è vero che Vingegaard corre solo il Tour. Toccando ferro, domenica a Parigi Jonas avrà completato il suo 47esimo giorno di gara in questo 2023, essendo arrivato al Tour con 26 corse nelle gambe. Quattro in più di Pogačar che tutt’al più, per colpa dell’infortunio patito alla Liegi, ha dovuto saltare giusto il Giro di Slovenia con cui avrebbe eguagliato il computo del collega. Lo scorso anno, in tutta la stagione, Vingegaard s’è messo un numero sulla schiena 53 volte e Pogačar appena una di più, 54. Poi certo, Vingegaard non è competitivo nelle classiche, ma in questo senso è Tadej a rappresentare un’eccezione, mentre il danese non fa che inserirsi nel solco dei grandi specialisti delle gare a tappe. E comunque, negli ultimi tre anni, pur senza risultati eclatanti ha preso parte a tre Liegi-Bastogne-Liegi e altrettanti Giri di Lombardia.

Non è vero che Vingegaard vince solo a luglio. Per quanto la Grande Boucle sia indubbiamente il principale obiettivo stagionale, non è affatto vero che Vingegaard si allinei al via delle altre corse solo per onor di firma o per rifinire la condizione: esattamente come Pogačar, infatti, il danese cerca di fare sua ogni gara a cui partecipa. Limitandoci a questo 2023, “mentre era intento a vincere solo a luglio”, Vingegaard faceva sua in febbraio la Gran Camiño (vincendo tutte e tre le tappe effettivamente portate a termine, essendo stata annullata, per neve, la prima frazione), a marzo era terzo alla Parigi-Nizza (dove, in effetti, le prese sistematicamente da Pogačar in salita, va detto), ad aprile sbaragliava la concorrenza al Giro dei Paesi Baschi e a giugno si ripeteva al Delfinato, presentandosi al via del Tour forte già di 11 successi stagionali, cui nel frattempo si è aggiunta la cronometro di Combloux e, con ogni probabilità, andrà a sommarsi quello in classifica generale.

Non è vero che Vingegaard è un corridore noioso. Questa, tra tutte, è davvero l’accusa più assurda che si possa rivolgere al 26enne di Hillerslev, di pari passo con il falso mito che lo dipinge come uno sparagnino succhiaruote. Ci ricordiamo come Jonas ha ribaltato Pogačar al Tour dello scorso anno, attaccandolo sul Galibier, a più di 50 km dall’arrivo posto in cima al successivo Col du Granon? E ci siamo già dimenticati del numero fatto sul Col de Marie Blanque, nella prima tappa di montagna di questa edizione, peraltro replicato all’indomani con l’attacco di squadra inscenato sul Tourmalet? E d’altra parte, se queste ultime due edizioni della Grande Boucle sono state le più spettacolari da decenni, il merito è solo di Pogačar o forse non avremmo assistito a nulla di tutto questo senza uno sparring partner eccezionale come il suo rivale scandinavo? E non è stato a suo modo uno spettacolo anche quello offerto da Jonas nella cronometro di martedì?

Non è vero che Vingegaard vince solo grazie alla squadra. Ricollegandoci al punto precedente, preveniamo la più banale delle obiezioni: «sia l’anno scorso sul Galibier, che quest’anno sui Pirenei, Vingegaard ha potuto contare sullo strapotere della Jumbo». Vero, ma chi ha poi finalizzato – da solo – l’attacco a Pogačar tanto nella mitologica 11esima tappa del 2022 come nella quinta frazione di quest’anno, quella di Laruns, è stato proprio Vingegaard. Non i suoi compagni. E comunque, se il danese è il leader della più forte squadra al mondo non è certo per un colpo di fortuna che poteva capitare a chiunque altro. Non è arrivato dove è arrivato vincendo alla lotteria: se la Jumbo ha deciso di mettere al suo servizio fior di corridori, pagati profumatamente, è proprio perché Vingegaard è uno dei pochissimi corridori al mondo ad assicurare un rendimento tale da giustificare anche una certa campagna acquisti da parte del team. Esattamente come Froome o Cipollini prima di lui, per citare altri due campioni le cui vittorie venivano sminuite, dai detrattori, in ragione della forza dei rispettivi treni.

Non è vero che Vingegaard è un robot privo di emozioni. Questo lo si era già detto non solo di Froome, tanto per cambiare, ma anche di Roglič: pensiamo alla stucchevole retorica nazionalista sciorinata dalla Rai al Giro 2019, quando il telecronista Andrea De Luca si rivolgeva sistematicamente allo sloveno con epiteti come “freddo automa”, “robot” o “calcolatore”. E tutto questo solo perché Primož parlava una lingua diversa dalla nostra e aveva la colpa di essere l’avversario numero uno dell’Italico Eroe Vincenzo Nibali. Peccato che se c’è un corridore simpatico e meravigliosamente cazzone, nel gruppo, quello è proprio Primož Roglič, come poi abbiamo potuto apprezzare una volta conosciuto meglio il ragazzo. Tornando a Vingegaard, il buon Jonas magari non sarà estroverso come Pogačar, ma fondamentalmente, anche nel suo caso, molti epiteti superficiali sono giustificati solo dalla scarsa conoscenza della persona. 

Non è vero che Vingegaard è telecomandato dall’ammiraglia. E se anche lo fosse, eseguire alla meraviglia le indicazioni dei propri direttori sportivi, mettendo su strada esattamente quanto pianificato a tavolino, non sarebbe cosa da poco – anzi! Prova ne è che nessuno ha mai osato dire la stessa cosa di Mikel Landa (giusto a titolo di esempio e con tutto il rispetto per il simpatico paperino basco), proprio perché sono più le volte che il buon Mikel ha mandato a signore di facili costumi il gran lavoro dei propri compagni di squadra, rispetto a quelle in cui ha saputo finalizzarlo. Ma poi vogliamo riconoscere che, oltre naturalmente alle gambe, ci vuole comunque una gran testa a pensare di attaccare Pogačar (e ripetiamo: Pogačar! e non il povero Landa) dalla grande distanza, e pensare poi di farlo ancora e ancora, così come ci vuole un temperamento fuori del comune per rispondere alle rasoiate dello sloveno su certe salite? Pensiamo alle accelerazioni di Tadej su Puy de Dôme, Grand Colombier e Joux Plane: quanti altri sarebbero stati capaci di rintuzzarle come ha fatto Vingegaard, concedendo alla peggio una manciata di secondi? Senza contare che, alla luce dei fatti, è stato proprio Pogačar – se mai! – a pagare quei fuorigiri, arrivando evidentemente svuotato alla terza settimana.

E infine, non è vero che Vingegaard vince grazie al doping. Attenzione: non ci si azzarda a dire che Jonas non sia dopato, né ci interessa più di tanto. Ma di sicuro, se oggi è di gran lunga il più forte corridore al mondo per le corse a tappe, non è “perché si droga”. E tirare fuori i soliti sospetti di fronte ad ogni prestazione eccezionale che ci si pari innanzi è davvero la più stucchevole delle obiezioni che si possa rivolgere non solo ad un corridore, ma ad un qualsiasi sportivo di vertice. Perché che a certi livelli si pedali, si corra, si nuoti o si giochi (a calcio, come a tennis, basket, pallavolo o perfino a bocce) a pane e acqua, infatti, è un’illusione che lasciamo alle anime belle come la signora Lovejoy, moglie del reverendo della Springfield dei Simpson.

Alludere al doping è già di per sé tendenzioso quando, invece, nello sport agonistico si dovrebbe parlare piuttosto di medicina sportiva, ritornando a quell’approccio certamente meno ipocrita che, in materia, si aveva fino agli anni Ottanta, prima dell’imperante caccia alle streghe scatenata dagli “scandali” degli anni Novanta e Duemila, e che ha portato a considerare Michele Ferrari uno stregone appestato quando il di lui maestro, Francesco Conconi, è ancora oggi un nume tutelare dello sport nazionale.

Altro è il concetto di medicina sportiva: non più la “bomba” di coppiana e bartaliana memoria, o i non meglio precisati cocktail come quello che costò la vita al povero Tommy Simpson sul Ventoux. Un approccio scientifico alla preparazione atletica implica naturalmente il ricorso a certe pratiche e pure a certe sostanze, frutto di una continua ricerca che va di pari passo con l’innovazione tecnologica e i passi avanti in materia di alimentazione e allenamenti: perché scandalizzarsi? In fondo non è quanto accade anche in Formula 1, dove ingegneri e meccanici sono alla costante ricerca della più sofisticata miglioria che renda più performante la vettura? Nessuno direbbe che la Red Bull di Verstappen è “dopata”, no?

L’importante, tanto nello sviluppo di un’automobile come nella preparazione di un atleta, è rimanere nell’ambito di certi parametri: che nella Formula 1 corrispondono alle misure e alle limitazioni di design e materiali imposte della Federazione, e nel ciclismo sono contingentati nell’ambito del Passaporto biologico. Ci basti questo, dunque, e cioè sapere che i valori fisiologici di Vingegaard (e di Pogačar, e di chiunque altro) restano all’interno di un certo range, senza preoccuparci delle soluzioni escogitate dalla Jumbo o dalla UAE (perché poi è evidente che ciascuna squadra batte la propria strada e che, di tanto in tanto, qualcuna ottiene un vantaggio oggettivo sulla concorrenza, senza peraltro che questo corrisponda necessariamente ad una pratica illegale: pensiamo ai chetoni utilizzati proprio dal team olandese) per fare andare il più forte possibile i propri corridori.

Ma ora stiamo divagando…

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