Il punto della discesa dell'Albulapass su cui ha perso la vita Gino Mäder © AFP
La Tribuna del Sarto

Ma l'istinto per l'estremo non ce lo possiamo cancellare

È giusto chiedere sicurezza perché l’irrazionale che è in noi non può essere tenuto a bada a lungo, e allora si deve fare in modo che l’evento fatale sia il meno probabile possibile, per proteggere l’essere umano da se stesso

18.06.2023 20:30

La discesa che da San Martino di Trecate porta al Ticino è lunga e dritta, le leve del cambio tirate ai due estremi alla ricerca del rapporto più lungo per spingere al massimo; sarà stato ai tempi delle scuole medie, non ricordo bene, con una bicicletta da corsa prestata, una vecchia Bianchi ed un amico per le strade della provincia di Novara. Una vera bicicletta da corsa è un nuovo gioco, invidiato, desiderato; fanno un po’ paura i copertoni delle ruote così sottili, le gabbiette dei pedali, quella sensazione strana che si prova le prime volte su un telaio rigido e reattivo.

Un piccolo contachilometri segnala la velocità, una trappola per la mia attenzione, troppa la curiosità di conoscere il valore massimo che sono in grado di raggiungere. La discesa verso il fiume azzurro che divide Piemonte e Lombardia è perfetta. 35…, 40…, 50…, 60…, 63 km/h! Le ruote mi sembrano lame, la strada larga con pendenza favorevole un invito troppo grande per non cercare il limite, quando ti accorgi che non sei più padrone del destino.

Un pensiero ti entra in testa, la paura: un sasso, una buca che possa farti sbandare e mandare a terra a quella velocità, senza nemmeno la protezione di un casco. Un terrore veloce, che scompare in un attimo, prima che tu possa tirare i freni, perché al suo posto arriva qualcos’altro, uno stato che oggi posso tranquillamente definire ipnotico. Il ricordo di quella sensazione non è mai sparito, aver raggiunto una dimensione così eterea, dove sei davvero artefice del tua sorte, un sottile confine tra piacere e dolore, tra esaltazione e pericolo, è proprio in quel momento che ti senti vivo come mai prima.

A volte ci chiediamo perché l’essere umano si spinga in situazioni così estreme, senza un vero motivo o necessità. Perché scalare una parete rocciosa ripida di una montagna? Perché attraversare un oceano in solitaria con una piccola barca a vela? Perché lanciarsi in bicicletta a tutta velocità da un passo alpino? La risposta è la stessa sensazione di quell’adolescente, perché più è vicina la morte, più ci sentiamo vivi. A mente fredda ci rendiamo conto di quanto questo naturale pensiero sia folle, anticonservativo; irresistibile per alcuni.

Spesso si sente dire “drogati di adrenalina”, non sono d’accordo; certo che questa catecolamina ha le sue funzioni in situazioni di stress e pericolo, ma l’estremo è un bisogno esistenziale, un misurare la vita. Però il pericolo non è immaginario, è lì vicino, pronto a prenderti da un momento all’altro se volesse. La morte non è più un tabù, ma un’opzione reale, vicina, questione di millimetri.

Prima o poi la tragedia arriva, come è successo a Gino Mäder al Giro di Svizzera, in una discesa di casa, probabilmente conosciuta a memoria, forse proprio per questo fatale. Quando la fine arriva davvero, ti chiedi se abbia senso, se questo giocare con la vita non sia una malattia, un tasto di autodistruzione che basta un’attimo a premerlo per sbaglio.

E dopo una perdita, sai che ne arriverà un’altra e un’altra ancora; sai che l’essere umano non è in grado di resistere a questa tentazione, bisogno. In una società sempre più invadente nel nasconderci la morte, dove si perde il senso ciclico della vita, uno spirito ribelle ci chiede di provare a noi stessi cosa siamo e se siamo ancora vivi. Viviamo costantemente questa contraddizione, questa tensione metafisica, che ci porta a comportarci ed a fare cose chiaramente illogiche, irrazionali, pericolose.

Non sono passate molte ore dal decesso del ciclista elvetico, che già migliaia di parole sono state scritte, dette, pensate. Appelli alla sicurezza, sempre giusti senza se e senza ma; dalla neutralizzazione delle discese a chiedersi se ha senso correre su biciclette così veloci. È normale ed anche giusto, la scomparsa di un giovane non può e non deve essere relegata ad un sacrificio eroico; ma nemmeno possiamo nasconderci questo nostro essere schizofrenici: attratti magneticamente del pericolo, affascinati, contro il nostro stesso istinto di sopravvivenza.

Ognuno di noi vive questa dicotomia con dolore, un senso di colpa; non c’è un appassionato innamorato di questo sport che oggi non si chieda se mai la vita di un ragazzo possa valere la bellezza di una salita alpina, segno del ciclismo. Trovo del tutto giusto chiedere sicurezza, sai che l’irrazionale che è in noi non puoi tenerlo a bada a lungo; allora devi fare in modo che l’evento fatale sia il meno probabile possibile, per proteggere non solo il corridore, l’alpinista, il velista, ma l’essere umano da se stesso.

Come nella discesa di San Martino di Trecate, a tutti più succedere di passare in un attimo dalla paura all’estasi, e il passaggio dall’estasi alla morte può essere ancora più breve, allunghiamo questa distanza dove e come possiamo, perché, rassegniamoci, è impossibile cancellare in noi l’istinto per l’estremo.

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