Una tenda ipobarica
La Tribuna del Sarto

Via libera alla camera ipobarica anche in Italia: sbagliavamo prima o sbagliamo adesso?

Un equivoco durato anni e figlio di una legislazione sul doping (la nostra) che andrebbe rivista ispirandosi ai presupposti del Passaporto Biologico

14.02.2024 07:43

A pagina 793 della Gazzetta Ufficiale del 27 novembre 2023 viene pubblicato qualcosa che potrebbe cambiare le sorti del nostro ciclismo: “Non è vietato l’utilizzo della camera ipobarica; l’atleta che ricorre a tale pratica deve rimanere sotto stretto controllo del medico sportivo sia prima che dopo l’utilizzo della camera ipobarica” (Capito V del III allegato del Decreto Ministeriale del 3 ottobre 2023).

Per molti atleti italiani, soprattutto ciclisti, è la fine di una discriminazione rispetto ai loro colleghi stranieri; non sono pochi coloro che hanno giustificato i non brillanti risultati del pedale nostrano in parte con l’impossibilità di utilizzare tale strumento.

La camera ipobarica, infatti, consente di ottenere un effetto simile a quello raggiunto in un ritiro in altura oppure con l’utilizzo di sostanze come l’Eritropoietina (EPO) o simili, con la conseguente stimolazione della produzione dei reticolociti (globuli rossi più giovani), che a sua volta innesca un rialzo significativo dell’ematocrito, soprattutto dopo un periodo di 3-4 settimane.

Sono facilmente intuibili i potenziali benefici sulla prestazione atletica (maggiore disponibilità di ossigeno nel sangue), benché non così certi come superficialmente si può credere, ma certamente probabili. Non è un caso, infatti, che l’EPO rimanga saldamente all’interno della lista delle sostanze proibite, per quanto in letteratura scientifica siano più gli studi a sfavore di un effetto positivo sulla prestazione piuttosto che il contrario.

È un discorso complesso che non può essere ignorato. Nel decidere se una sostanza è dopante o meno, in particolare nell’attivazione del primo criterio (performance enhancing), la differenza tra ciò che è certo scientificamente (consci dei limiti strutturali, statistici ed umani della scienza) e ciò che potenzialmente è in grado di fare una sostanza non è banale, e riguarda anche la camera ipobarica ed il fatto che, a differenza dell’EPO, non sia stata inserita a livello internazionale tra le pratiche vietate.

La contraddizione che un metodo autorizzato dalla Agenzia Mondiale dell’Antidoping (WADA) fosse proibito solo agli atleti italiani, oltre a creare incomprensioni e lamentale, anche giustificate, evidenziava un aspetto interessante: il significato e talora il conflitto tra una legge nazionale ed il contesto regolamentare, in questo caso sportivo, internazionale; un luogo dove oltretutto sono già presenti le commissioni competenti a prendere decisioni in merito: il Foundation Board della WADA.

È evidente che un governo in materia che riguarda la salute pubblica non possa delegare a soggetti terzi e fuori dalla sua giurisdizione aspetti così delicati, ma nello stesso tempo non può essere in opposizione agli stessi organismi internazionali a cui aderisce.

Nel caso specifico del doping, l’Italia è stato tra i primi paesi a scrivere ed approvare una legge, la 376/2000, nata sull’onda degli scandali di fine anni '90. Le leggi, quando nascono sulla spinta emotiva, spesso portano con sé aspetti emozionali e moralisti che ne inficiano l’efficacia, come in questo il caso.

Nell’articolo 1, “Tutela sanitaria delle attività sportive - Divieto di doping”, al primo comma si specifica che il fine della legge è la tutela della salute individuale e collettiva, ma nelle definizioni di ciò che è doping, al comma 2 e 3, il tema salute sparisce. Il doping è solo ciò che altera la prestazione agonistica dell’atleta oppure che modifica i risultati dei controlli sull’uso dei farmaci.

In realtà la definizione corretta è quella della WADA che afferma che una sostanza o metodo è considerato dopante quando risponde a 2 su 3 dei seguenti criteri:

  • performance enhancing (migliora la prestazione sportiva)
  • dannoso per la salute (a breve e lungo termine)
  • viola lo spirito dello sport

A queste sostanze si devono aggiungere tutte quelle pratiche che possono nascondere o modificare un test antidoping.

La particolarità italiana in questi anni

Giovanna Melandri, ex ministra di cui la legge antidoping porta il nome © Wikipedia
Giovanna Melandri, ex ministra di cui la legge antidoping porta il nome © Wikipedia

Ritorniamo ai 3 criteri. Se per classificare qualcosa come doping consideriamo sufficiente il solo essere un performance enhancing, come dice la legge italiana, paradossalmente il miglior metodo dopante di sempre è l’allenamento. Ovviamente l’allenamento non viola lo spirito dello sport e, per quanto si potrebbe discutere (overtraining, infortuni, ecc.), non possiamo giudicarlo dannoso per la salute.

Non solo, una sostanza che viola lo spirito dello sport e allo stesso tempo è pericolosa per il fisico dell’atleta, può essere considerata doping pur non incrementando la prestazione sportiva (ad esempio le droghe ad uso voluttuario).

Quindi anche se per la camera ipobarica la WADA non ha ritenuto validi almeno due dei tre criteri suddetti, l’utilizzo di questo strumento per la legge italiana era impedito. Come specificato dall’articolo 3 della 376/2000, ogni decisione finale è nelle mani della Commissione per la Vigilanza ed il controllo sul Doping (CVD) che, come ne aveva vietato l’utilizzo in passato, oggi invece ne autorizza l’uso. È giusto chiedersi da dove nasca questo ribaltamento, poiché o ci si era sbagliati in passato oppure l’errore lo si commette adesso.

La nota ministeriale che giustifica questo cambio di opinione dice che tale indicazione scaturisce da un approfondimento scientifico-bibliografico effettuato dal Consiglio Superiore di Sanità, che si è espresso su richiesta della Sezione per la vigilanza e il controllo sul doping del Comitato Tecnico Sanitario, per fornire un parere tecnico scientifico sulla possibilità di utilizzare la camera ipobarica ad uso sportivo. Dunque, al fine di allineare il trattamento degli atleti italiani con quelli stranieri, la Sezione per il controllo sul doping ha ritenuto di procedere all’autorizzazione della stessa.

Premesso che è sempre un buon segno il saper correggere i propri errori e, per quanto riguarda una pratica legislativa, aver previsto uno strumento in grado di sapersi adeguare alle nuove conoscenze, tutto ciò però non toglie il dubbio che dietro questa scelta ci sia un’unica ragione: incrementare la competitività sportiva dei nostri atleti.

È auspicabile che questo sospetto venga presto confutato, a partire dalla spiegazione e diffusione sul sito della NADO (Organizzazione Nazionale AntiDoping) del prezioso lavoro tecnico scientifico del Consiglio Superiore della Sanità, non solo per conoscere le vere ragioni della modifica di questa regola, ma per avere una maggiore tranquillità nell’utilizzo della camera ipobarica stessa. Dubbi sulla sua sicurezza ci sono e chi meglio del più alto organo di salute pubblica in Italia è in grado di chiarirli e la NADO di diffonderli?

E ora bisognerebbe rimettere mano alla legge sul doping

Chiusa la questione ipobarica, questa vicenda conferma la necessità di una revisione della legge sul doping, anche alla luce del nuovo articolo 33 della Costituzione, approvato nel settembre 2023, che recita “La Repubblica riconosce il valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico dell’attività sportiva in tutte le sue forme”.

È necessario che l’aspetto competitivo scenda in secondo piano nella definizione di doping presente nell’articolo 1 (comma 2 e 3), privilegiando il tema sicurezza, e le stesse pene siano rimodulate, per quanto già incrementate in caso di danno alla salute o se il fatto è commesso nei confronti di un minore. Attualmente è prevista la reclusione dai tre mesi ai tre anni, quantità forse influenzata dall’indignazione generata dai tanti scandali al tempo in cui fu scritta la legge.

Inoltre, è essenziale chiarire il rapporto tra la Commissione per la Vigilanza ed il controllo sul Doping (CVD) e la WADA; perché no, mettendo anche in discussione la sua stessa necessità, facendone magari un semplice strumento confermativo, velocizzando e snellendo procedura e struttura. Non ci sono condizioni genetiche o ambientali in Italia che fanno ritenere che la lista delle sostanze e metodi proibiti dalla WADA possa essere da noi modificata.

Dalla introduzione del Passaporto Biologico in poi è in corso un tentativo di cambio culturale nella lotta al doping, sempre più attento alla prevenzione e al benessere psicofisico, questo senza abbassare la guardia dei controlli. Ancora troppo spesso, però, riemergono e prendono il sopravvento atteggiamenti polizieschi e moralisti, ma è proprio partendo da una corretta filosofia giuridica di una legge che si può trasformare la giusta lotta al doping in una campagna per il miglioramento della salute collettiva. Se invece la preoccupazione fosse solo quella di adeguare la competitività dei nostri atleti agli altri, allora la 793 della Gazzetta Ufficiale sarebbe una triste pagina dello sport italiano, un cedere sulla pelle degli sportivi.

Così come è giusto che esista una legislazione in merito e un giusto reato per doping, nello stesso tempo non ci si deve limitare a ridurre la questione in lecito e non lecito, ma in sano e non sano; al fine di avere uno sport che abbia alla radice lo scopo di migliorare il benessere psicofisico, sociale ed educativo di tutti, non il semplice garantire una competizione leale. È una rivoluzione culturale necessaria e finalmente “costituzionale”.

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