
Viva la Vuelta, viva i pro-Pal e… viva la Israel!!
Lungi dall’essere mai stata il vero obiettivo dei manifestanti, proprio la presenza della squadra di Sylvan Adams è servita a fare da miccia a proteste sacrosante e destinate, visto il successo ottenuto, a proseguire in molti altri ambiti
Viva la Vuelta! E viva la Spagna e gli spagnoli che hanno capito, prima e meglio del resto d’Europa, qual è la parte giusta della Storia da cui schierarsi. Perché di fronte a un genocidio in diretta mondiale portato avanti da una sedicente “democrazia occidentale”, proprio noi occidentali – tutti! – siamo chiamati in causa: e chi tace, a questo punto, è complice.
Una vetrina da sfruttare
Dunque viva la Vuelta e viva la Spagna e gli spagnoli che, pur essendo grandi appassionati di ciclismo e pur amando visceralmente la loro corsa più importante, non si sono fatti scrupolo di approfittare di questa vetrina in mondovisione per manifestare, oltre ogni ragionevole dubbio, la loro presa di posizione. E pazienza se agli annali di questa Vuelta mancheranno i vincitori delle tappe di Bilbao e di Madrid: anche al netto di qualche ulteriore taglio qua e là, il valore tecnico della corsa non è stato scalfito e la vittoria di Jonas Vingegaard è cristallina. E ad ogni modo, se anche così non fosse stato, pazienza: il messaggio lanciato dalle migliaia e miglia di cittadini (perché, prima ancora che manifestanti, questi erano appunto Cittadini, e con la c maiuscola) in queste tre settimane travalica, naturalmente, anche la regolarità di una corsa in bicicletta.
Le proteste rispetto alla sicurezza: mettere in ordine le priorità
E la sicurezza dei corridori??? Lo so, lo so, questa è l’unica obiezione che ha senso accogliere perché, se manifestare è sacrosanto, non lo è altrettanto mettere in pericolo la salute di quelli che, in fin dei conti, restano dei lavoratori. E però: ci rendiamo conto della mostruosità che si vuole denunciare al mondo? Di fronte ai crimini di cui si sta macchiando Israele non da due anni, ma da almeno 58 (e cioè da quando, dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, il paese occupa illegalmente la Cisgiordania) per non dire 77 (e cioè dal 1948, anno della stessa fondazione dello Stato ebraico, e della conseguente Nakba palestinese), e che dall’8 ottobre del 2023 vengono portati avanti senza più alcun freno inibitore – di fronte a tutto questo, e di fronte alla vergognosa accondiscendenza dei governi occidentali, davvero ci chiedete ancora di manifestare ordinati e in fila in indiana, restando al di qua della linea gialla in attesa del treno? Se quanto accaduto negli ultimi 23 mesi non è servito a smuovere le coscienze di chi ci governa, per quanto altro tempo ancora dovremmo continuare a pazientare?

In questo contesto, poi, arrivo al paradosso di dire non solo viva la Spagna e gli spagnoli, ma “viva la Israel-Premier Tech!”, perché proprio la presenza di una squadra intrinsecamente legata alla propaganda sionista, ha fatto da miccia alle proteste di popolo viste lungo le strade iberiche. Proteste che naturalmente non riguardano e non riguarderanno solo il ciclismo, ma che nel ciclismo hanno trovato un’eccezionale occasione di visibilità. Tale per cui, alla fine, la presenza della squadra di Sylvan Adams è presto diventata un semplice pretesto per protestare contro qualcosa di più grande, ovvero l’insopportabile permanenza di Israele nel consesso dei paesi civili. Con i quali, è ormai ovvio alla gran parte dell’opinione pubblica, Israele non ha ormai più niente a che fare.

Il tappo è saltato
D’altra parte aver tolto dalle maglie quel nome simbolo d’infamia, come deciso dal team dopo qualche giorno, non poteva certo bastare a placare gli animi dei manifestanti, né, credo, sarebbe cambiato poi molto se la squadra si fosse decisa a togliere il disturbo. Proprio perché ormai il tappo era saltato, e perché delle sorti di una squadra di ciclismo, in fondo, importa poco o niente a chi – ripeto – ha giustamente approfittato della Vuelta soltanto per lanciare un messaggio più grande. E l’eco ottenuta ha dimostrato che sì, urlare la propria rabbia anche a costo di far saltare un paio di tappe – e, arrivo a dire, anche a costo di aver fatto cadere qualche corridore, comunque sempre senza conseguenze troppo gravi al di là di qualche graffio – ha funzionato. Quindi succederà ancora e, ne sono certo, anche in occasione di altri grandi eventi sportivi o di intrattenimento diversi dalle corse in bicicletta: ad esempio, è notizia di questi giorni che Slovenia, Islanda, Irlanda e Olanda hanno già annunciato il loro ritiro dal prossimo Eurofestival, se ancora vi parteciperà Israele. E a questi quattro paesi, con ogni probabilità, si aggiungerà la stessa Spagna, il cui governo, anzi, è stato il primo ad approvare le prime, timide sanzioni nei confronti di Tel Aviv.
Dopodiché, certo, il ciclismo si presta particolarmente ad essere oggetto di manifestazioni di dissenso proprio perché si svolge su strade alla portata di tutti, a meno che non si dia mandato alla polizia di manganellare, il che, fortunatamente, almeno in questo caso, sta diventando politicamente sconveniente, e proprio in ragione della crescente solidarietà verso le sorti di Gaza e della Palestina tutta. Mentre è molto più semplice tutelare il regolare svolgimento di eventi che si disputano al chiuso di uno stadio o di un palazzetto, ma sono convinto che presto qualcosa succederà anche lì, se le istituzioni, dall’Unione europea in giù, non si decideranno a interrompere una volta per tutte ogni relazione diplomatica, politica ed economica con Israele. Perché sanzionare la Russia, cioè un paese nemico, è facile: ma è appunto dalla severità che saprà dimostrare (?), sia pure fuori tempo massimo, nei confronti di un “alleato fraterno” quale è sempre stato Israele, che l’Occidente si gioca l’ultimo suo briciolo di credibilità. Per la dignità, invece, temo sia già troppo tardi.
