Biniam Girmay © Intermarché-Circus-Wanty
L'Artiglio di Gaviglio

La globalizzazione (nel ciclismo) ha fatto anche cose buone

Si corre in tutto il mondo, ma è vero che l’internazionalizzazione ha danneggiato i paesi tradizionali? Se l’Italia ci ha rimesso, è solo colpa del nostro provincialismo e del collasso del sistema-paese, altro che World Tour!

02.02.2023 19:20

In principio fu il Pro Tour, anno domini 2005. Dal 2011 passò a chiamarsi World Tour, ma la sostanza è rimasta la stessa: stiamo parlando del massimo circuito mondiale voluto dall’UCI che, nel nuovo millennio, ha prodotto una rivoluzione copernicana nel mondo del ciclismo. Una rivoluzione non certo indolore, stanti le mille polemiche che in questi anni hanno spesso visto squadre e organizzatori storici opporsi alle politiche decise da Aigle. Dalla spartizione dei diritti televisivi ai margini di manovra delle singole corse rispetto alla collocazione nel calendario e alle wild card da distribuire, infatti, i motivi di tensione non sono mai mancati, ma non è in questa sede che vogliamo distribuire ragioni e torti.

Una semplice constatazione, però, va fatta: e cioè che il World Tour ha favorito una crescita del ciclismo a livello mondiale mai sperimentata prima, portandolo per la prima volta al di fuori dell’orticello in cui era vissuto per un secolo – l’Europa occidentale – tanto in termini di praticanti, quanto di pubblico. Perché va bene rimpiangere i bei tempi andati, nei quali era sempre stata una questione tra italiani e francesi, belgi e olandesi, tedeschi e spagnoli, e naturalmente, quindi, la messe di vittorie a cui ci avevano abituato i nostri corridori era indubbiamente maggiore.

Ma senza scadere nel provincialismo, non possiamo che accogliere con favore l’affermazione di campioni provenienti da ogni parte del mondo: nel nuovo millennio abbiamo visto australiani e sudamericani diventare finalmente corridori a tutto tondo, tanto dall’avere visto Cadel Evans ed Egan Bernal mettere le mani sul Tour de France e avere, oggi, un campione olimpico ecuadoriano. Nella vecchia Europa sono esplosi campioni da paesi insoliti: in principio fu il kazako Vinokourov, altro campione a cinque cerchi, poi è stata la volta dello slovacco Sagan, della British invasion capitanata da Wiggins e Froome e ora dei fenomeni sloveni Pogačar e Roglič – e non solo loro: chi ha vinto l’ultima Sanremo? E finalmente, anche dall’Africa subsahariana stanno arrivando ragazzi capaci di giocarsela alla pari con i migliori al mondo, con Biniam Girmay a guidare una nidiata di talenti destinati a far parlare molto di sé negli anni a venire.

Nel 2025 i mondiali si correranno in Ruanda, e tante sono le corse esotiche, anche tecnicamente interessanti, ad essersi affacciate nel calendario mondiale grazie al World Tour. Perché non c’è davvero niente di male nel correre in Australia e Argentina, Africa o Nordamerica, se lo si fa in momenti della stagione che non confliggano con le corse storiche come, appunto, avviene proprio in queste settimane.

E tutto sommato  non c’è niente di male nemmeno a correre in Medio Oriente, se ci limitiamo esclusivamente ad una valutazione sul piano sportivo, prescindendo quindi dalle implicazioni politiche. Certo: Arabia Saudita, Qatar o Dubai sono tutt’altro che regimi democratici specchiati, ma sarebbe anche ipocrita chiedere proprio al ciclismo di restarne fuori, quando i nostri governi e le nostre economie sono già legati a doppio filo a questi paesi, per cui lo sport non fa che adeguarsi ad un andazzo, quello sì, decisamente discutibile. Come discutibile è, d’altra parte, la tendenza a dare patenti di legittimità ad un paese piuttosto che a un altro, in nome della realpolitik: perché, ad esempio, oscurare le bandiere degli atleti russi e bielorussi e non battere ciglio quando un grande giro sceglie di partire da una polveriera geopolitica come Israele? 

Ma senza spingerci in divagazioni che poco hanno a che vedere con la nostra bolla, fatta di salite e discese, volate e ventagli, qualcuno potrebbe davvero dire che il ciclismo di oggi è meno bello di quello di venti o trent’anni fa, o comunque che la sua internazionalizzazione abbia avuto un impatto negativo sulla salute complessiva del movimento? Un’obiezione, comprensibile, potrebbe essere quella che il World Tour ha portato ad una divaricazione dei valori in campo, tale per cui oggi abbiamo tre o quattro squadre nettamente superiori al resto del lotto anche all’interno della stessa classe regina, per non parlare dei team Professional. Verissimo: ma si tratta di un risultato a cui probabilmente saremmo arrivati lo stesso, anche senza la riforma varata dall’UCI quasi vent’anni fa, perché figlio di un processo più grande che è la globalizzazione tout-court, quella economica e politica, di cui lo sport non è che un riflesso.

Anche a livello di corse, lo strapotere del Tour de France (e quindi di ASO) rispetto a tutto quello che c’è intorno è un fenomeno che viene da lontano, e che probabilmente ha più a che vedere con Greg Lemond e Lance Armstrong che non col World Tour: sono state le imprese in giallo di questi due campioni a stelle e strisce a fare sì che dall’altra parte dell’oceano, e in generale nel mondo anglosassone, ci si accorgesse del ciclismo, sovrapponendo però il Tour de France (e tutt’al più la Roubaix) allo sport del pedale in senso lato. Una deleteria equivalenza nata ben prima del Pro Tour/World Tour e di cui, se mai, proprio il World Tour è riuscito a mitigare le conseguenze, legando ai destini della Grande Boucle anche quelli delle altre corse storiche che, altrimenti, avrebbero davvero rischiato di finire nel dimenticatoio.

Ed è indubbio che proprio il Giro e le corse italiane in generale abbiano beneficiato, più di altre, dell’ingresso nel World Tour che ha obbligato le squadre più ricche (e dunque più forti) a parteciparvi. O ci siamo già dimenticati le startlist dei primi anni duemila – gli ultimi prima della riforma – nei quali, di fatto, la lotta per la maglia rosa era un discorso confinato ai soli corridori italiani? Certo, sull’altare dell’internazionalizzazione molte piccole-grandi corse della nostra storia sono scomparse e altre ci sono andate vicino ma, oggi, chi è sopravvissuto ha saputo rilanciarsi, con intelligenza, riposizionandosi nel calendario a ridosso degli eventi clou – quelli del World Tour, appunto – in modo da fare massa critica e attirare un parco partenti degno dei “vecchi tempi”.

Un’operazione intelligente che hanno saputo fare gli organizzatori e che, purtroppo, non si è saputo replicare a livello di squadre: per qualche tempo abbiamo vissuto di rendita, sulla scorta dei grandi team italiani che, ancora al passaggio del millennio, dominavano la scena, ma poi ci siamo attorcigliati sulla difesa, strenua ma ancor di più sterile, di squadre sempre più piccole e incapaci di reggere il confronto internazionale. Gridando al destino cinico e baro identificato, appunto, nello spauracchio del World Tour.

Però come mai, allora, le altre nazioni culla del ciclismo sono ancora oggi sulla breccia e solo noi, peggio ancora della Spagna (paese con cui vale sempre la pena fare un paragone, per livello di popolarità del ciclismo e situazione economica) ci stiamo estinguendo? Nel momento in cui la competizione, piaccia o non piaccia, si gioca su scala globale, il futuro passa per la qualità più che per la quantità e a chi altri, se non alla Federciclismo, competerebbe adoperarsi per mettere insieme un pool di investitori che abbiano i mezzi e la visione per riportare almeno una squadra nel World Tour, sulla scorta di quanto fatto, ad esempio, in Gran Bretagna ed Australia con le operazioni Sky e GreenEdge, oggi INEOS e Jayco, benedette dalle rispettive federazioni? 

Perché se il terreno ci si sta lentamente sgretolando sotto i piedi, la colpa è solo della globalizzazione alla quale assistiamo impotenti o non dipenderà, piuttosto, dalla nostra incapacità di reinventarci anche sul piano della programmazione e delle metodologie di allenamento? Perché, a livello giovanile, si continua a preferire l’uovo di oggi alla gallina di domani? Perché, cioè, già a livello di Juniores, se non prima, si preferisce vincere il circuito di paese anziché lavorare in prospettiva, con il risultato di produrre una pletora di corridori veloci, buoni a vincere in volata su percorsi completamente pianeggianti, salvo poi andare alla deriva non appena le altimetrie si fanno un minimo più impegnative?

E perché, spesso, le stesse squadre Professional preferiscono portare i loro uomini migliori a gareggiare in corse improbabili, nelle quali è più facile riuscire a strappare una foto opportunity del loro velocista a braccia alzate con tutti i loghi degli sponsor in bella vista, anziché offrire ai propri ragazzi più promettenti la possibilità di testarsi in corse internazionali di primo livello, per le quali magari non si prova nemmeno a chiedere un invito? È mai possibile che l’Italia delle Alpi e degli Appennini produca meno scalatori dell’Australia o della Danimarca? 

Solo perché per decenni si è sempre lavorato in un certo modo, non è detto che non ci si debba aggiornare, anche con l’umiltà di guardarsi attorno e vedere cosa si è saputo fare altrove. Magari partendo dalle scuole, come in Slovenia, dove i ragazzi vengono messi in condizione di provare tutti gli sport prima di venire indirizzati verso le discipline per le quali dimostrano di avere una maggiore predilezione. O sarà forse un caso che, oggi, un paese grande come la Lombardia, e con un quinto dei suoi abitanti, abbia prodotto i Roglič, i Pogačar e i Mohorič ed eccella anche in sport di squadra ipercompetitivi come il basket e la pallavolo?

E tornando a quello che potrebbe (anzi, dovrebbe) fare la Federazione, è davvero un peccato che il nuovo corso, per ora, si sia distinto soprattutto per improbabili avventure fiscali sotto il cielo d’Irlanda, azioni legali contro olimpionici rei di posporre l’acronimo FCI al loro nome su Facebook e per avere messo malamente alla porta un commissario tecnico che aveva provato a fare sistema, lavorando trasversalmente tra nazionale maggiore e settore giovanile, tra strada e pista, spendendosi anche in prima persona sul piano del marketing. Defenestrandolo, forse, proprio per quest’ultima ragione: a riprova dell’innata lungimiranza di chi dirige il vapore.

Poi certo, ci sono difficoltà oggettive che trascendono il ciclismo: perché se oggi manca chi è disposto ad investire, è anche – e soprattutto – perché il tessuto economico che ha fatto grande l’Italia, anche nello sport, è stato pressoché spazzato via da anni di crisi, austerità e macelleria sociale. E a prescindere dalla leva economica che la garanzia di partecipare al Tour de France sa offrire alle squadre francesi, rappresentando per loro un indubbio vantaggio competitivo, è però impietoso il confronto tra le aziende che sovvenzionano i team d’Oltralpe e quelle che patrocinano le formazioni italiane: da una parte abbiamo grandi banche, compagnie assicurative, colossi dell’energia; da quest’altra, dignitosissime aziende di edilizia, giocattoli e macchinari industriali, alle quali naturalmente basta e avanza il ritorno d’immagine che una piccola squadra Professional può restituire su base territoriale, e tanto meglio se poi viene invitata pure al Giro. Ma che non hanno alcun interesse a fare il passo più lungo della gamba e investire milioni di euro in un progetto più ambizioso. Perché giustamente che gli frega, al Pojana, del World Tour?

D’altra parte, non ci si può nemmeno più autoassolvere dando la colpa di tutto al calcio che, pure, continua a drenare le migliori risorse e la gran parte delle attenzioni mediatiche, in un paese nel quale la cultura sportiva (e ahimè non solo quella) indietreggia a passi da gigante. Nonostante il suo strapotere politico e finanziario, infatti, pure l’italico pallone se la passa male con non mai, segno evidente di un declino che si riflette nello sport ma è prima di tutto economico e sociale, e che travolge l’intero sistema-Paese, incapace di stare al passo non solo delle grandi potenze mondiali, ma anche dei nostri vicini di casa, piccoli o grandi che siano.

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