Un arrivo in parata di Wout van Aert, Christophe Laporte e Primoz Roglic alla Parigi-Nizza 2022 © Team Jumbo-Visma
L'Artiglio di Gaviglio

“Salary cap” is the new “lotta all’evasione fiscale”

Una manciata di squadre dominano e torna a levarsi la richiesta di un tetto salariale che limiti lo strapotere dei top team, ma è un sogno vano e facilmente aggirabile: meglio allora un limite ai punti UCI cumulabili dai corridori in rosa

27.04.2023 20:43

Quella che ci siamo appena messi alle spalle è stata una delle primavere più spettacolari che si ricordino, ma anche una delle più sbilanciate. Quattro squadre da sole, infatti, si sono aggiudicate 44 delle 59 vittorie in palio a livello World Tour tra gare di un giorno, classifiche generali e singole tappe, che è come dire tre corse su quattro. E si tratta, manco a dirlo, della Jumbo del tridente Vingegaard-Roglič-Van Aert (e… Laporte) con 18 successi nel massimo circuito mondiale, della UAE di Tadej Pogačar a quota 10, della Soudal-Quick Step di Remco Evenepoel (e Jakobsen, e Merlier…) a 9 e della Alpecin di Mathieu van der Poel e Jasper Philipsen a 7. Trend confermato anche dal Giro di Romandia di questa settimana, iniziato ancora nel segno del Wolfpack.

A snocciolare questi numeri, a Liegi ancora calda, è stato Silvio Martinello sulla sua pagina Facebook ufficiale, per mettere tutti in guardia: «Se in pochi si mangiano quasi tutto, sarà inevitabile l’implosione! Arriverà il giorno in cui il signor Ineos o il signor Bora, a titolo esemplificativo, alzeranno il telefono per comunicare ai loro team manager che i rubinetti si stanno chiudendo. Arriverà il giorno in cui il piccolo organizzatore non sarà più in grado di organizzare la propria gara, tanto i campioni delle squadre più ricche preferiscono andare in altura ad allenarsi, piuttosto che rifinire la condizione con una corsa a tappe di cinque giorni». Una riflessione, quella dell’olimpionico di Atlanta ed ex commentatore Rai, assolutamente condivisibile, e che si conclude rivendicando l’importanza di tutte le componenti del sistema, vale a dire «dei grandi e dei piccoli organizzatori, delle grandi e delle piccole squadre, dei fuoriclasse e dei modesti gregari».

Ma se Martinello, una volta sollevato il problema, si limita ad invocare un’urgente presa di coscienza da parte dei padroni del vapore senza proporre una sua ricetta, c’è anche chi, come il burbero team manager della Groupama Marc Madiot, in un’intervista rilasciata all’Équipe avanza una soluzione. Peccato si tratti della solita, vecchia proposta di sempre, già sentita chissà quante volte, spesso anche per arginare la crescente disparità di valori nel calcio: il salary cap. Che è un po’ come quando si chiede ad un politico dove pensa di trovare i soldi per mantenere le più improbabili promesse elettorali, e questi replica rispolverando la solita, vecchia e ormai mitologica “lotta all’evasione fiscale”.

Ecco, la chimera di un tetto salariale comune a tutte le squadre è esattamente questo: la trasposizione, in campo sportivo, della lotta ai mulini a vento contro chi non paga le tasse. Qualcosa di sacrosanto in linea di principio, ma praticamente impossibile da ottenere nella realtà. Perché il ciclismo, come il calcio e come qualsiasi altra disciplina che risponda ad una governance transnazionale di tipo europeo, per capirci, non potrà mai essere paragonato alle leghe chiuse made in USA, nelle quali il budget cap è la prassi ormai da tempo immemore.

Impensabile, invece, che squadre affiliate in paesi diversi, e dunque soggette a diversi ordinamenti legali e molteplici discipline fiscali, possano sottostare ad un unico tetto salariale: tanto più nel caso di uno sport, il ciclismo appunto, in cui chi mette i soldi è un’azienda terza, che decide di investire in sponsorizzazioni per avere un adeguato ritorno di immagine. E si sa, ognuno coi propri soldi fa quello che vuole, perlomeno nel sistema capitalistico in cui – ci piaccia o no – viviamo, e di cui lo sport professionistico è una delle più eclatanti manifestazioni. Senza contare, poi, che qualsiasi limite di stipendio è facilmente aggirabile in maniera legale, mediante sponsorizzazioni individuali e diritti di immagine che finiscono direttamente nelle casse del campione in questione, se non proprio sottobanco, con pagamenti in nero. E qui il cerchio si chiude, tornando al paragone con la lotta all’evasione.

Dunque, che fare? Beh, se non possiamo risolvere il problema a monte, possiamo provare a farlo a valle: non preoccupandoci, cioè, di quanto una squadra è disposta a pagare per assicurarsi le prestazioni di Tizio o di Caio, ma facendo semplicemente in modo che Tizio e Caio non possano correre assieme in quella squadra, attraverso un parametro oggettivo. Ad esempio, i punti UCI: la federazione mondiale stila infatti un ranking in stile tennistico che, sommando i piazzamenti raccolti dai corridori nell’arco degli ultimi dodici mesi, determina una classifica di merito aggiornata ogni settimana, e che al 25 aprile è dominata – pensate un po’ – proprio da Pogačar con 6727,86 punti, seguito a debita distanza da Wout van Aert a 5057 e da Remco Evenepoel, terzo a 4831,21.

Scorrendo la top ten troviamo poi Vingegaard, Van der Poel, Philipsen, Mads Pedersen, De Lie, Laporte e Landa. E con più di 2mila punti ci sono anche Powless, Gaudu, Roglič, Skjelmose e Mas. Ecco, se esistesse una regola tale per cui, nella stessa squadra, non possano esserci più di due corridori con oltre 2mila punti UCI, ecco che certe corazzate sarebbero automaticamente smantellate: oggi a rimetterci sarebbe soprattutto la Jumbo, in passato sarebbe toccato alla Sky e prima ancora, magari, alla Mapei.

Sicuramente ci saremmo risparmiati qualche arrivo in parata, non fosse altro perché una squadra, per quanto dominante, con questo meccanismo tenderebbe sempre a privilegiare il proprio capitano e non a rimpinguare anche il bottino di punti di un luogotenente, con il rischio di doverlo poi cedere a fine stagione (e ogni riferimento alla Gand-Wevelgem regalata da Van Aert a Laporte è puramente voluto). Il che, peraltro, invoglierebbe lo stesso luogotenente di cui sopra a cercare gloria personale altrove, in una squadra che ne faccia il proprio leader.

Certo, un sistema del genere dovrebbe prevedere dei correttivi, perché in fondo se un team è così bravo dal portare al successo tanti suoi corridori, poi non è giusto che venga privato di alcuni di questi senza una contropartita: ma questa potrebbe anche essere l’occasione per introdurre, finalmente, la possibilità di monetizzare la cessione dei ciclisti sotto contratto, che darebbe alle squadre una forma di sostentamento economico ulteriore rispetto ai proventi degli sponsor.

Tornando all’esempio della Jumbo, gli olandesi sarebbero costretti a separarsi, a fine 2023, da almeno due tra Van Aert, Vingegaard, Roglič e Laporte, ma siamo certi che, per ognuno di questi, si scatenerebbe un’asta al rialzo tra le squadre pronte ad offrire anche un cospicuo risarcimento al team giallonero. Che a quel punto potrebbe reinvestire quanto incassato nell’acquisto di nuovi corridori o, magari, consolidare le proprie finanze per avere un tesoretto a cui attingere, qualora lo sponsor chiudesse i proverbiali rubinetti: per cui, comunque la si giri, pure la Jumbo cadrebbe in piedi.

Va detto che anche questo sistema avrebbe dei limiti: con i soldi incassati dalla cessione dei suoi gioielli, una squadra potrebbe comprare corridori altrettanto forti che abbiano meno punti UCI solo perché ancora giovani, come l’astro nascente Ben Healy, o perché, magari, reduci da una stagione segnata da un grave infortunio, e il pensiero va ad Egan Bernal. Se non altro, però, sarebbe garantito il turn-over dei corridori di vertice, rendendo molto più difficile assistere al dominio dello stesso capitano sulle strade del Tour per più di un lustro, o vedere una sola squadra rastrellare la gran parte delle classiche in circolazione.

Naturalmente, imporre un limite di due corridori con più di 2mila punti UCI è solo una delle tante opzioni percorribili: in alternativa si potrebbe fissare un vero e proprio “points cap” complessivo per l’intera rosa di un team, in modo da non poter assommare nello stesso roster più di una manciata di quei corridori di livello medio-alto che popolano la top 100 UCI, e che potete spulciare voi stessi al medesimo link già riportato qualche paragrafo più su (ci sono praticamente tutti, dai velocisti Groenewegen e Jakobsen ai gemelli Yates, dai vincitori di Giri Carapaz, Geoghegan Hart ed Hindley ad altre illustri aspiranti maglie rosa come Almeida e Vlasov, da Ganna a Ciccone, da Démare a Bardet, da Ayuso a Girmay, eccetera eccetera). E magari, contestualmente, rivedere il sistema di punteggi per premiare molto di più la vittoria a scapito del piazzamento, di modo che il ranking conseguente valorizzi soprattutto i corridori vincenti e sia, quindi, un indicatore ancora più veritiero di quali ciclisti separare.

A prescindere dal sistema che si voglia adottare, insomma, è il principio che conta: mettere un freno alla concentrazione di troppi assi nella mano dello stesso giocatore, o quantomeno costringere quel giocatore a scartare alcuni di quegli assi e pescare ogni anno nuove carte dal mazzo. Fermo restando che, a proposito di assi, finché resterà in circolazione gente come Pogačar o Evenepoel, di fiches in mano agli altri giocatori ne resteranno comunque pochine.

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