Fabio Casartelli vince l'oro olimpico nella corsa in linea dei Giochi olimpici di Barcellona 1992 © Fondazione Fabio Casartelli

Fabio Casartelli, trent'anni dopo. In memoria del campione olimpico di Barcellona 1992

Il corridore comasco morì il 18 luglio 1995 sulla discesa del Portet d'Aspet

18.07.2025 09:00

Il Tour de France ha iniziato a sgranare il rosario delle salite pirenaiche. Ce n'è una, però, che brucia di dolore e sofferenza: il Col du Portet d'Aspet, dove trovò la morte un giovane ragazzo bergamasco, Fabio Casartelli, in un giorno d'estate di trent'anni fa. 

Trent'anni fa la morte di Fabio Casartelli

Aveva un sorriso gentile, il ragazzo di Albese con Cassano, che gli appassionati di ciclismo scoprirono in un'estate di qualche anno prima, ai Giochi olimpici di Barcellona 1992. La prima edizione di un'Olimpiade con i professionisti del basket (e lo straripante dominio del Dream Team), l'ultima con i dilettanti in bicicletta. La Nazionale italiana - diretta per l'ultima volta da Giosuè Zenoni - schiera tre corridori di livello assoluto al via della prova in linea: Davide Rebellin, l'ex campione del mondo Mirko Gualdi e, per l'appunto, Casartelli. La ruota veloce del terzetto, la carta da giocare in un arrivo allo sprint. Gli avversari sono corridori che, in un modo o nell'altro, faranno carriera anche tra i professionisti: Glenn Magnusson, Lars Michaelsen, Erik Zabel, Pascal Hervè, Georg Totschnig, Peter Luttenberger e - ultimo ma non ultimo - Lance Armstrong, che avrebbe poi vinto il Mondiale dei professionisti l'anno seguente. 

La sfida per le medaglie si accende nel corso del terzultimo giro, quando Casartelli attacca in compagnia del lettone Dainis Ozols e dell'olandese Erik Dekker. Alle loro spalle, Gualdi - che aveva cercato invano di attaccare nel giro precedente con altri 8 uomini - si incarica di rompere i cambi. Sì, è l'azione buona, quella che ti avvicina a un passo dalla gloria. Quando arriva il momento dello sprint, Fabio non ha esitazioni: sa di essere il più veloce. E lo dimostra con una progressione irresistibile: medaglia d'oro davanti a Dekker e Ozols. Anche i battuti fanno festa. Tutti fanno festa quando ti aspetta un podio olimpico. 

Quel maledetto giorno sui Pirenei

C'è un fotogramma che resta impresso di quella domenica di inizio agosto: Fabio Casartelli con la medaglia al collo e gli occhi chiusi per un istante. Quel che basta per immaginare una carriera altrettanto luminosa tra i professionisti. «Correrò con Gianni Bugno», confida ai giornalisti che lo interrogano a fine corsa. In realtà, il battesimo tra i grandi avviene con la maglia della Ceramiche Ariostea, diretta da Giancarlo Ferretti. Che lo lancia al Giro d'Italia, dove macina ottimi risultati: un 5° posto sul traguardo di Fossano, due volte 6° a Marcianise e Dozza. Niente male per un esordiente, che sfiora persino la sua prima vittoria al Giro di Svizzera: una volta si piazza alle spalle di Johan Museeuw, che diventerà di lì a poco il principe delle classiche; un'altra viene battuto dall'ex sovietico Viatcheslav Ekimov

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Fabio Casartelli sul podio della 1ª tappa del Giro di Svizzera 1993 © Fondazione Fabio Casartelli

Un buon inizio, non c'è che dire. Eppure, a fine stagione, Casartelli emigra alla ZG Mobili-Selle Italia-Bottecchia di Gianni Savio, con cui disputerà anche il suo primo Tour de France. Debilitato da una serie di malanni, il comasco non riesce a ripetere i risultati dell'anno precedente. Ciononostante, la statunitense Motorola crede ancora in lui, offrendogli un contratto per il 1995. Il campione olimpico in carica sembra pronto per il rilancio, confermato dai buoni risultati al Giro di Svizzera, che convincono il direttore sportivo Hennie Kuiper a convocarlo per l'imminente campagna francese.

Quando parte per la Bretagna, Fabio è un uomo felice: nella sua vita è appena arrivato Marco, nato qualche settimana prima dal matrimonio con Annalisa Rosetti. La sua Grande Boucle procede sottotraccia, ma il team manager James Ochowitz ne apprezza il temperamento: il rinnovo del contratto è cosa pressoché fatta. Sensazioni che lo accompagnano anche la mattina del 18 luglio 1995, un martedì che propone il classico tappone pirenaico: partenza da Saint-Girons, arrivo a Cauterets-Cambasque dopo 203 km che propongono in successione Aspin, Peyresourde e Tourmalet. Il terreno ideale per gli scalatori che proveranno invano ad attaccare il padrone della corsa, Miguel Indurain. Fabio li guarda con ammirazione prima di salire in bicicletta: sarà una giornata durissima per lui e per tutti quelli che dovranno tenere testa al tempo massimo.

Prima di scalare i giganti dei Pirenei, la carovana affronta il Col du Portet-d'Aspet: una salita tutto sommato facile, seguita da una discesa altrettanto veloce, che consentirà ai ritardatari di accodarsi nuovamente al gruppo. «E penso a te che sei in cima alla salita/ e già respiri la libertà della discesa», canteranno molti anni dopo i Têtes de Bois ne La canzone del ciclista. Chi o cosa potrebbe mai stroncare il desiderio di libertà di un corridore che plana veloce lungo una discesa? 

A un certo punto, dal fondo del gruppo si leva un sinistro rumore di freni. Qualcuno urla, qualcun altro giace immobile a pochi passi da un parapetto di cemento. Le immagini sgranate della televisione francese catturano gli istanti successivi alla caduta di cinque corridori: Johan Museeuw, il francese Dante Rezze, il tedesco Dirk Baldinger, Giancarlo Perini e Fabio Casartelli. Pochi fotogrammi sono sufficienti per capire che il ragazzo comasco ha perso i sensi: l'incidente è stato tremendo. Casartelli è riverso sull'asfalto, il corpo in posizione fetale. I fotografi al seguito, senza alcuna pietà, macineranno uno scatto dopo l'altro, consegnandolo in pasto ai giornali. Che, il giorno dopo, pubblicheranno quelle foto, aggiungendo altro dolore al dolore della famiglia, degli amici e dei compagni di squadra.

Sì, perché si intuisce da subito che la situazione è disperata: Fabio viene soccorso sul posto prima del trasporto in eliambulanza all'ospedale di Tarbes. La sua agonia finisce alle 14.40, mentre il Tour è già lanciato verso il finale della tappa. Adriano De Zan, fino a quel momento imperturbabile, dà l'annuncio ai telespettatori di Raitre prima di scoppiare in lacrime. Suo figlio Davide - che sta commentando il Tour per Telemontecarlo - interrompe la telecronaca, che proseguirà senza commento fino all'arrivo vittorioso di Richard Virenque, omaggiato sul palco delle premiazioni come se nulla fosse accaduto. Già, perché la corsa è andata avanti lo stesso: triste legge dello sport che, in quegli anni, virava sempre più verso lo spettacolo e l'intrattenimento. A cadavere ancora caldo, si rincorreranno le immancabili polemiche sull'uso del casco, in verità rifiutato dagli stessi corridori che lo consideravano inefficace in caso di incidente. Serviranno altri martiri - l'ultimo di questi sarà il kazako Andrei Kivilev, morto alla Parigi-Nizza del 2003 - prima che l'Unione ciclistica internazionale ne disponesse l'uso obbligatorio.

Sotto un sole cocente, il Tour de France cerca la sua tardiva redenzione: i 229 km della Tarbes-Pau, in programma il giorno dopo, si trasformano in un lungo e commosso corteo funebre in memoria di Fabio, liquidato in maniera a dir poco sprezzante dal patron Jean-Claude Killy, che accuserà i corridori di scarso impegno. In vista dell'ultimo chilometro, i corridori della Motorola si staccano dal resto della carovana e - stretti l'uno all'altro - taglieranno il traguardo. Il terzultimo giorno, infine, Lance Armstrong si involerà solitario verso Limoges, sollevando gli indici al cielo per onorare la memoria dell'amico appena scomparso. Per le statistiche, sarà la sua seconda e ultima vittoria di tappa al Tour. Ma questa - come insegna il poeta - è un'altra storia. 

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Carmine Marino
<p>Nato a Battipaglia (Salerno) nel 1986, ha collaborato con giornali, tv e siti web della Campania e della Basilicata. Caporedattore del quotidiano online SalernoSport24, è iscritto all'albo dei giornalisti pubblicisti della Campania dal 4 dicembre '23.</p>