
Spari ai ciclisti in Veneto, Scarponi: “Le parole sono pietre che, poi, diventano fatti”
Violenza contro chi pedala, il presidente della Fondazione risponde alle domande di Cicloweb: “La strada non può essere il territorio del più forte”
Gli spari contro i ciclisti del Team SC Padovani 1909 durante un loro allenamento in Veneto hanno riacceso i riflettori su un clima di ostilità che da anni accompagna chi pedala sulle strade italiane. Per capire cosa c’è dietro a episodi come questo e quali risposte servano, Cicloweb ha intervistato Marco Scarponi, presidente della Fondazione intitolata al fratello Michele. Ne è nato un confronto che parte dal fatto di cronaca e si allarga ai temi dell’odio verso i ciclisti, della sicurezza stradale e della necessità di costruire “una strada davvero di tutti”.

La punta di un iceberg
Per Marco Scarponi quanto accaduto in Veneto non è un fulmine a ciel sereno, ma la punta di un iceberg ben più profondo. “Non dico che uno se lo aspetti, ma questo fatto mette ancora una volta in risalto che siamo di fronte a un problema enorme: un problema culturale, di disumanità, di mancanza di empatia verso i più deboli”. Ma più del gesto in sé, a colpirlo sono state le reazioni: “Quello che fa più paura sono i commenti sotto i post. Sono allucinanti. Nel 2025 leggere persone che esaltano un fatto del genere e continuano a prendersela coi ciclisti fa capire che c’è un problema enorme”.
L’odio che corre online e colpisce sulla strada
Per Scarponi il legame è diretto: “Le parole sono importantissime. Le parole sono come pietre. In un clima di odio, in cui ognuno si permette di insultare e denigrare, poi arrivano i fatti. A noi arrivano continuamente segnalazioni di sorpassi a pochi centimetri, insulti, gente che si avvicina apposta. Siamo arrivati perfino a chi ha tentato di sparare, anche se con una pistola a salve”. Da qui la battaglia contro il linguaggio: “Noi cerchiamo di parlare di violenza, non di incidente. Di persone che guidano le auto, non di auto impazzite. Perché c’è sempre una persona dietro. E diciamo che ‘ciclista’ o ‘automobilista’ sono termini sbagliati. Sono persone in bicicletta, persone in auto, persone a piedi. Sulla strada c’è la persona, punto”.
Il dominio dell’auto e la strada come territorio del più forte
Secondo Scarponi, alla base di tutto c’è un’idea distorta della strada: “Per anni non abbiamo mai lavorato in maniera educativa sul fatto che la strada sia di tutti. L’abbiamo sempre utilizzata come il territorio del più forte, cioè dell’automobilista. Adesso che tante persone vanno in bicicletta, questo mette in discussione un dominio che però non dovrebbe esistere. La strada deve essere una cosa condivisa”.
E qui entra in gioco anche la politica: “Non c’è un progetto serio che vada in questa direzione. Quando parliamo di sicurezza stradale non viene mai messa ai primi posti. Le risorse sono sempre poche e l’ultima riforma del codice della strada ha messo da parte completamente l’utenza fragile”. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: “Chi va in bicicletta o a piedi è considerato un utente minore. Ed è veramente orribile”.

“Il problema non sono i ciclisti”
Scarponi rifiuta con forza la narrazione che scarica la colpa su chi pedala: “Continuiamo a dire che sono loro che sbagliano, che se la cercano. Ma se togliamo i ciclisti o i pedoni dalle strade il problema resta ed è gravissimo. Se togliamo gli automobilisti, il problema non c’è più. È banale, ma è così”.
E aggiunge: “Io posso dire al ciclista di mettere il casco o di farsi vedere. Ma questo non giustifica che tu mi uccida e poi dica che me la sono cercata. Ma in che Paese siamo?”.
Da qui anche le denunce contro chi istiga all’odio: “Noi denunciamo questi commenti perché riteniamo che siano istigazioni all’odio, come il razzismo o il sessismo. Una persona con un microfono non può dire ‘a me piacciono i ciclisti quando vengono investiti’ e passarla liscia. Non c’è niente da ridere”. Parole che, racconta Scarponi, hanno avuto un impatto devastante: “Quando Feltri pronunciò quelle parole, ho ricevuto telefonate da mamme che hanno perso figli in bicicletta sulla strada, in lacrime, disperate. Perché quelle frasi li hanno uccisi un’altra volta. È una cosa orrenda”.
Fare squadra: la grande occasione mancata del mondo della bici
Un altro nodo, per Scarponi, è la difficoltà cronica dei ciclisti a fare massa critica: “Sono anni che cerco di coinvolgere il più possibile il mondo della bici. Siamo in tanti, tantissimi, eppure non riusciamo a spostare niente, perché non siamo uniti. Ci sono tante associazioni, ma nessuna riesce davvero a tenere insieme tutti”.
Nel mirino finisce anche chi dovrebbe rappresentare questo mondo: “La Federazione Ciclistica Italiana, in questo momento, non è capace di portare avanti questa battaglia. Non riesce a incidere, non riesce a capire, non interviene se non per fare il compitino. E così non si cambia nulla”. E non va meglio guardando al vertice del movimento: “Anche i professionisti e gli ex professionisti fanno molta fatica a metterci la faccia e a dedicarci tempo. Se c’è da esporsi davvero, poi spesso scompaiono”.
La palla, allora, dovrebbe passare al ciclismo di base: “Chi potrebbe davvero fare la differenza è il mondo amatoriale, perché è il più vasto. Ma è un mondo sfuggente, che si fa i fatti suoi, che non ha gli anticorpi per unirsi e portare avanti battaglie comuni. Ed è questo il vero limite: senza fare squadra non si va da nessuna parte”.
Il paradosso italiano: patria dei campioni, nemica della bici
Nel racconto di Scarponi c’è anche un’amara riflessione su quello che definisce un vero e proprio paradosso tutto italiano: “Noi siamo un Paese che ha una storia del ciclismo immensa, un patrimonio nazionale. Abbiamo il Giro d’Italia, Coppi e Bartali, Gimondi, Pantani, Nibali, Moser, Saronni. E oltre a questo una storia di biciclette, di artigianato, di grandi marchi. Abbiamo tutto”. Eppure, la realtà delle strade racconta altro. “Siamo un Paese che sembra voler vedere i ciclisti ammazzati, che gode nel vederli ammazzati. È assurdo, è tremendo”.
Per Scarponi la spiegazione è chiara: “In realtà non siamo il Paese delle biciclette, siamo il Paese dell’automobile. Le strade sono degli automobilisti, gli altri non ci devono stare. Ma se vogliamo davvero cambiare, dobbiamo smontare l’idea che la strada sia degli automobilisti e basta. Serve un progetto vero di educazione e di rispetto dell’altro. Perché senza empatia, sulla strada, e non solo, emerge il peggio di noi”.

La Fondazione, i giovani e l’eredità di Michele
Dietro l’impegno quotidiano di Marco Scarponi c’è la Fondazione intitolata al fratello Michele, ucciso il 22 aprile 2017 mentre si stava allenando in bicicletta. Una ferita che si è trasformata in una missione: “Noi siamo tutti i giorni nelle scuole e ci andiamo non per fare educazione stradale standard, ma per dire ai ragazzi che sulla strada ci devono essere solo le persone. Che il più forte si deve prendere cura del più debole, anche se il più debole sbaglia. La strada parte dal più fragile: dai bambini, da chi va in bicicletta, dagli anziani”.
Un lavoro educativo continuo, che usa anche la storia di Michele come strumento per parlare ai più giovani: “È una storia che aiuta a capire tantissimo, perché dentro c’è la tragedia ma anche la grandezza, i valori, le cadute e le risalite. Da lì partiamo per affrontare i temi della strada, le cause e come cambiarle”. Ma per Scarponi non basta l’impegno dal basso: “Questo progetto deve diventare strutturato. Serve un progetto vero, civico ed educativo. Non c’è alternativa”.
Accanto alla scuola, la Fondazione ha scelto di investire anche sul ciclismo giovanile, per riportare i ragazzi sulla strada in sicurezza: “Abbiamo una scuola di ciclismo e abbiamo inaugurato una gara juniores dedicata a Michele. Quest’anno la faremo su due giorni. Per noi mettere i giovani al centro, nello sport e nella sicurezza stradale, è fondamentale, perché sono loro la vera soluzione”.
Sul fronte culturale e legale è nata poi la campagna “L’odio corre online ma colpisce sulla strada”, con cui la Fondazione raccoglie i crimini di odio contro i ciclisti che circolano sul web e li porta all’attenzione della magistratura: “Le parole sono pietre, e quello che si semina online poi lo ritrovi sulla strada”. Grazie a questa iniziativa sono già state inoltrate le prime 16 denunce. “Continueremo - assicura - non solo per denunciare, ma perché vogliamo che prima o poi qualche giudice faccia fare un salto in avanti alla giurisprudenza”. Un impegno che, tra educazione, sport e battaglie culturali, prova a trasformare una tragedia in un’eredità viva: perché, come ripete Scarponi, solo così la strada potrà tornare a essere davvero di tutti.
