Tadej Pogacar e Wout van Aert al Tour de France © Getty
L'Artiglio di Gaviglio

Ci frega qualcosa delle monumento o dei grandi giri?

Van Aert, Van der Poel, Pogačar ed Evenepoel: quattro fenomeni che col loro modo di correre rendono un dettaglio trascurabile i palmarès e cambieranno comunque il ciclismo (o magari no!)

02.03.2023 21:52

«Vinceranno una decina di monumento a testa», si diceva di Van Aert e Van der Poel quando i due, qualche anno fa, irruppero prepotentemente anche sul palcoscenico del ciclismo su strada, dopo avere già fatto sfracelli nel cross. E invece, a distanza di alcune stagioni da quella profezia, ancora basta e avanza la mano di un Simpson a conteggiarne i successi maggiori: la fredda contabilità, infatti, ci dice che Mathieu è fermo a due Giri delle Fiandre e Wout addirittura ad una sola Sanremo sommando, in due, lo stesso numero di Roubaix e Mondiali vinti dal sottoscritto. E la tentazione di iniziare a parlare di due grandi incompiuti inizia a fare capolino, perché diciamocelo: potrai anche vincere 200 corse in carriera ma, se tra queste non c'è un adeguato numero di grandi classiche o – a seconda dei casi – di Giri e di Tour, nella storia del ciclismo non ci entri.

Praticamente da sempre, infatti, sono le monumento e le grandi gare a tappe a misurare la grandezza di questo e di quel corridore, con l'eventuale ciliegina di un Mondiale. Ma siamo sicuri che le cose debbano rimanere così in eterno? D'altra parte, se ci pensiamo, da quando sono state aperte ai professionisti anche le Olimpiadi sono entrate nel novero dei grandi obiettivi di una carriera, ed il club delle cinque monumento ha già subìto almeno un avvicendamento, quello tra Freccia e Liegi, dato che fino agli anni ’60 la Doyenne era secondaria all'altra grande corsa vallone.

E anche parlando di grandi gare a tappe, beh, fino all'inizio degli anni '90 il Giro di Svizzera faceva curriculum senza nulla da invidiare alla Vuelta, anzi, mentre oggi la corsa elvetica non solo è stata surclassata da quella spagnola, ma ha perso terreno anche nei confronti di altri giri di una settimana, a cominciare da quella Tirreno-Adriatico che, ancora agli albori del nuovo millennio, era considerata semplicemente la rifinitura della Sanremo, mentre in questi ultimi anni ha spesso vantato una startlist capace di mettere invidia a quella del Tour, e offerto spettacolo a profusione, tanto da diventare essa stessa un obiettivo da perseguire. E a proposito di spettacolo, che dire della Strade Bianche? Sarà pure la più giovane delle classiche, ma l'impressione è che, quando si decideranno ad allungarla di un'altra cinquantina di chilometri, potrà fregiarsi a tutti gli effetti del titolo di sesta monumento.

Per quanto profondamente radicato alla propria storia, dunque, anche il ciclismo cambia e si trasforma, sia pure alla stessa velocità con cui i continenti vanno alla deriva. Almeno fino a quando un terremoto di inaudita violenza non imprime uno sconvolgimento improvviso. E torniamo a Van der Poel e Van Aert perché, se la liturgia del ciclismo alla quale siamo abituati da tempo immemore rischia di essere stravolta, gran parte del merito è proprio loro. E di Pogačar, Evenepoel e in generale di tutti i fenomeni della nuova generazione che, ancora in fasce negli anni in cui Lance Armstrong sdoganava il Tourcentrismo, sono cresciuti con in testa un'idea di ciclismo tutta nuova – o, per certi versi, parecchio antica – fatta di costanza di rendimento nell’arco di tutto l’anno e di incredibile polivalenza. Incredibile, almeno, rispetto all'iperspecializzazione alla quale ci eravamo abituati da vent'anni a questa parte, tale per cui se volevi puntare al Tour non potevi permetterti nessun altro picco di forma precedente (figuriamoci anche solo pensare di correre il Giro!) e, se volevi vincere sulle pietre del Fiandre o della Roubaix, dovevi scordarti delle côtes delle Ardenne, mentre pista e cross erano semplicemente altri sport.

Ebbene, i Van Aert e i Van der Poel, i Pogačar e gli Evenepoel, ci stanno dimostrando invece, che osare si può. Con vette di incredibile completezza toccate, in particolare, da Tadej e Wout: il primo capace di primeggiare ovunque, se non nelle volate di gruppo; e il secondo a cui – per ora – è preclusa solo la possibilità di fare classifica sulle tre settimane. Di fronte a questa poliedricità, unita peraltro ad un'interpretazione delle corse spesso spregiudicata e ad un'instancabile ricerca del risultato da febbraio ad ottobre (vedi Pogačar) se non addirittura tirando dritto per tutto l'inverno (ed è naturalmente il caso dei due Van del ciclocross), viene da chiedersi se, davvero, per passare alla storia questi fenomeni abbiano bisogno di collezionare una monumento dopo l'altra o riempire l’armadio di maglie gialle. O, se invece, non gli sia sufficiente essere sé stessi e regalare quanto più spettacolo su ogni terreno, senza badare più di tanto alla caratura degli scalpi raccolti lungo il loro cammino.

Impossibile dare una risposta con una prospettiva storica perché, sicuramente, siamo condizionati dal fatto di vivere quest’epoca in prima persona, con il rischio di sopravvalutarne gli interpreti. E però è davvero una bestemmia azzardare che a Pogačar basti quanto vinto finora (in fondo, parlando di corse di tre settimane, "solo" due Tour, essendo ancora viva la ferita della sconfitta patita l’anno scorso) per dire di avere lasciato un segno quantomeno paragonabile a quello di un mostro sacro dei grandi giri come Indurain? Fortissimo Miguelón – e chi lo nega! – ma, obiettivamente, c'è già più spettacolo nelle quattro stagioni da professionista dello sloveno che in tutta la carriera del gran calcolatore navarro o di un altro accumulatore seriale di grandi giri come Froome. E senza aggiungere al carrello della spesa la Liegi, i due Lombardia e la Strade Bianche che pure Pogačar si è già messo in saccoccia, è semplicemente il suo modo di correre che impressiona e che finisce per nobilitare anche due corsette andaluse di metà febbraio come la Jaén Paraíso Interior (no, non è il nome di uno yogurt ricco di fermenti lattici vivi) e la Ruta del Sol. 

All'opposto, invece, c’è Valverde: con le sue quattro Liegi e cinque Frecce Valloni vinte tutte alla stessa maniera, cosa ha aggiunto il buon Alejandro alla storia e al fascino di queste corse? Sono, se mai, le due grandi classiche valloni ad avere reso grande la carriera del murciano, mentre l'impressione, quando si parla dei quattro fenomeni d'oggi, è che sia proprio la loro interpretazione, di per sé stessa, a fare grandi le gare a cui prendono parte. Anche se si tratta di una semplice tappa del Tour of Britain o della Tirreno.

Attenzione: io, per primo, non ho l’assoluta certezza di quel che sto ipotizzando, e magari ha davvero ragione Boonen nel rimproverare a Van Aert la sua insistenza per il cross di cui, secondo Tommeke, non fregherebbe niente a nessuno. Probabilmente, se Wout e Van der Poel non si danno una mossa a colmare ciascuno le proprie lacune nei rispettivi palmarès, rischieranno davvero di venire ricordati come degli splendidi incompiuti. E lo stesso potrebbe dirsi perfino di Pogačar se, date le enormi aspettative che ha alimentato, non riuscisse a centrare la doppietta Giro-Tour, o tornasse a perdere (da Vingegaard o chi per lui) sulle strade di Francia. Per non parlare di Evenepoel che, tutto sommato, ha ancora molto da dimostrare ed è forse ancora un gradino al di sotto di quegli altri tre ma, quanto ad aspettative cui fare fronte non è secondo a nessuno (in fondo, i belgi gli chiedono soltanto di essere il nuovo Merckx!).

Però, di fronte a questi quattro, c'è davvero l'impressione che il loro passaggio nel ciclismo possa lasciarsi alle spalle uno sport molto diverso da quello che li aveva accolti all'inizio delle rispettive carriere. E che possano riuscire ad imprimere alla storia delle corse un'accelerazione tale da scardinare certezze che sembravano granitiche. Sarà bello scoprirlo insieme, a cominciare proprio da questa stagione che, finalmente, entra nel vivo. Sempre che anche questa stessa considerazione – e cioè che l'approssimarsi delle consolidate e venerate "classiche monumento” coincida con il primo apice dell’annata ciclistica – non sia condannata ad improvvisa obsolescenza. Lo so, sono confuso, ma di fronte ai fenomeni d’oggi, chi non lo è?

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