
Pogačar un fenomeno epocale ma… forse oggi è pure più facile vincere?
L’impressione è che, nel giro di pochi anni, si sia passati da un ciclismo che appiattiva i valori ad uno che invece esalta le individualità: e Tadej a parte, lo dimostrano gli exploit di tanti altri, da Del Toro in giù
Già dall’anno scorso penso che Tadej Pogačar sia addirittura superiore a Eddy Merckx perché, al di là della stretta contabilità, vincere nel ciclismo di oggi è certamente più difficile che in quello di cinquanta o sessant’anni fa, quando il movimento era limitato a pochi paesi europei e tutti i campioni correvano, sostanzialmente, ognuna delle corse più importanti del calendario. Oggi, invece, il ciclismo è diventato a pieno titolo uno sport universale, nel quale la continua ricerca della specializzazione e dei picchi di forma rendono quasi impossibile primeggiare da marzo a ottobre e su terreni diversi.
Discorsi già fatti, e su cui siamo tutti d’accordo. O forse no? A pensarci bene, siamo sicuri che le cose stiano ancora così? L’impressione è infatti che, nel volgere di poche stagioni, siamo passati da un ciclismo che appiattiva i valori ad uno che, al contrario, esalta le individualità. E che dunque, oggi, per chi abbia comunque di partenza delle doti fuori del comune, sia relativamente più facile emergere non già nel confronto con l’epoca remota dei Coppi e dei Merckx, ma, quantomeno, rispetto al ciclismo di inizio millennio.
Iperspecializzazione e livellamento: il ciclismo dei primi Duemila
Quello dei primi anni duemila è stato infatti il ciclismo dell’iperspecializzazione più spinta, nella quale chi correva le classiche fiamminghe non si azzardava a prolungare la propria campagna fino alle Ardenne e, viceversa, gli specialisti delle côtes nemmeno ci pensavano a provarsi sulle pietre. Un ciclismo in cui erano merce rara anche i corridori da grandi giri capaci di distinguersi nelle classiche, fossero pure quelle a loro più congeniali, come Liegi e Lombardia: perché se, in questo senso, Vincenzo Nibali è stato una luminosa eccezione, è indiscutibile la completa irrilevanza nelle corse di un giorno di fuoriclasse assoluti delle tre settimane quali Alberto Contador e Chris Froome, o quella di un Paolo Bettini o un Philippe Gilbert nelle gare a tappe, dove perfino i grandi polivalenti di allora – Valverde e Vinokourov – avranno pure vinto una Vuelta a testa (ma la Vuelta, come direbbe uno dei massimi pensatori del nostro tempo, «fa le multe»), però a Giro e Tour sono stati sempre e soltanto dei piazzati.

Un’altra costante del ciclismo dell’altroieri – comune tanto alle corse di un giorno come a quelle a tappe – era l’incredibile livellamento verso l’alto, tale per cui anche i campioni, solitamente, non avevano che una o due cartucce da sparare, e preferivano dunque conservarla per il finale, dando vita a corse tatticamente bloccate fino agli ultimi chilometri.
Dall'eccezione alla regola…
E oggi, invece? Oggi Tadej Pogačar ci ha abituato a dominare le classiche e le gare a tappe, a fare la differenza su quasi ogni tipo di percorso e ad attaccare da distanze che, fino a poco tempo fa, sembravano impossibili. Ma se non si possono trarre generalizzazioni dalle prestazioni quello che è, come minimo, il secondo corridore più grande di tutti i tempi, il trend sembra essere confermato anche a prescindere da Pogačar.

Infatti, nonostante uno dei più grandi cantautori viventi canti «se non c’è Tadej, come farei?», siamo ormai sempre più abituati a svolgimenti di gara pogaciariani pure in assenza del diretto interessato. E anche «se non c’è Tadej», spesso, «facciamo lo stesso»: a distruggere la concorrenza, sebbene ciascuno entro il proprio raggio di azione (ed è questo che, in effetti, caratterizza la grandezza del biondo di Komenda), ci pensano i vari Van der Poel, Evenepoel, Vingegaard, Pedersen e da quest’anno, come abbiamo visto, anche Del Toro. Ma certe giornate di grazia le abbiamo viste con una certa frequenza anche da parte di Ayuso, Pidcock, Healy, Almeida o perfino Jay Vine (!). Insomma, l’eccezione pare sia diventata la regola e allora, forse, è qualcosa di strutturale ad essere cambiato. Altrimenti dovremmo pensare di essere davanti ad un’esplosione di fenomeni senza eguali, ed è difficile attribuire al caso un simile allineamento di pianeti.
…con le giuste condizioni
Qualcosa è cambiato, dunque, e oggi appare oggettivamente più facile emergere, per chi possieda delle qualità fuori del comune. Già, ma cosa è cambiato? Provo a buttare lì alcuni spunti, senza la pretesa di avere la verità in tasca.
Tanto per cominciare, sono cambiate la preparazione e soprattutto l’alimentazione: accantonati gli allenamenti a digiuno di gran moda ai tempi della Sky, oggi, ad esempio, i corridori tendono a ingurgitare spaventose quantità di calorie prima e dopo la competizione, ma anche a gara in corso, perché ci si è accorti che in questo modo si riesce a rifornire il motore dell’energia necessaria a prodursi in attacchi più lunghi e prolungati. Attacchi più lunghi e prolungati resi possibili, anche, dalla riduzione del numero di corridori a disposizione di ciascuna squadra: e in effetti anche un solo gregario in meno, moltiplicato per quelle quattro o cinque formazioni che solitamente hanno l’interesse a controllare la corsa, significano quattro o cinque corridori in meno a girare in testa al gruppo nelle fasi salienti.
Che sia nato prima o l’uovo o la gallina, fatto sta che questo cambiamento nella dieta, e conseguentemente nella gestione delle energie, magari incoraggia a tentare la fortuna qualche decina (abbondante) di chilometri prima che in passato. Inoltre, corridori che per andare forte in salita non hanno più bisogno di essere pelle e ossa, automaticamente finiscono con l’avere più chances anche in corse – come, appunto, le classiche del nord – alle quali fino a poco tempo fa non avrebbero mai nemmeno pensato di prendere parte: basti pensare al rimpianto, ammesso tanto da Nibali come da Valverde, di avere assaggiato le Fiandre soltanto a fine carriera.
Ad essere cambiato, poi, è anche il percorso di avvicinamento al grande ciclismo: l’analisi dei dati consente agli scout di individuare sempre più presto i ragazzi su cui puntare, prendendone in considerazione i valori fisiologici prima ancora che i risultati ottenuti nelle categorie giovanili, di modo che la selezione dei campioni di domani avvenga sulla base di criteri più oggettivi e prevedibili. Inoltre, già da juniores, i migliori prospetti possono beneficiare di metodologie di allenamento e materiali paragonabili a quelli dei professionisti, e così quando passano sono già pronti per vincere. Non può essere un caso, infatti, nemmeno l’esplosione di talenti precoci e subito competitivi ai massimi livelli a cui stiamo assistendo, cominciata con i Bernal, i Pogačar e gli Evenepoel e proseguita con i Del Toro, i Brennan e i Seixas.

Dopodiché, aggiungiamoci anche un ragionamento sull’elefante nella stanza, e cioè il doping: sarà un caso che, dall’introduzione del passaporto biologico, i casi di certi brocchi scopertisi campioni dalla sera alla mattina siano diventati sempre più rari e, al contrario, i migliori del gruppo abbiano iniziato a imporsi sempre più frequentemente? Possiamo dire senza ipocrisie che, in una situazione apparentemente calmierata quale è quella odierna, i corridori più forti riescono a distinguersi dai comprimari con maggiore facilità?
D’altra parte, anche senza banalizzare il ragionamento, e parlando più propriamente di medicina sportiva anziché di doping – perché, poi, il discrimine tra lecito e illecito non è assoluto e cambia, se mai, di pari passo con i regolamenti: pensiamo al recente ban al rebreathing praticato da quasi tutti i big fino a poche settimane fa – è indubbio che le squadre con maggiori risorse economiche possano mettere a disposizione dei propri corridori trattamenti e pratiche (ripeto ancora: lecite) di cui i colleghi di altre formazioni non dispongono. E che questo, unito naturalmente alla forza complessiva dei roster dei top team, si traduca in un vantaggio prestazionale anche per i singoli. Un esempio su tutti: Simon Yates, tornato a vincere un grande giro a sette anni dal successo alla Vuelta, guarda caso, alla sua prima stagione in Visma dopo una lunga militanza in un team di media fascia come la Jayco. O, viceversa, pensiamo alla parabola di Marc Hirschi, quasi scomparso dai radar una volta passato dalla UAE alla Tudor, pur essendo ancora nel pieno della propria carriera.

E allora, tornando a Pogačar: fortissimo, fenomenale, divino… tutto quello che volete. Ma siamo sicuri che, solo dieci o quindici anni fa, Tadej sarebbe riuscito a vincere altrettanto, e con la stessa facilità? Dico questo a prescindere dagli avversari, perché il punto non è stabilire se Contador e Schleck fossero più forti di Vingegaard e Evenepoel, e se Boonen e Cancellara valessero più di Van der Poel e Van Aert. Il punto è che lo stesso Pogačar, se si fosse affacciato al ciclismo a inizio anni duemila, probabilmente sarebbe stato un corridore diverso: tanto per cominciare, ci avrebbe messo qualche anno in più ad affermarsi, magari sarebbe stato meno incline all’attacco e forse, ad un certo punto, avrebbe pure dovuto scegliere tra classiche e grandi giri. Con ogni probabilità sarebbe comunque diventato un campione, certo, ma chissà, forse sarebbe arrivato ad essere “soltanto” un campione della sua epoca. E non il più grande di sempre.
