Manolo Portanova © ReggianaCalcio.it
L'Artiglio di Gaviglio

Chi ha detto che gli sportivi devono essere un modello?

Da Portanova a Tiberi, da Schwazer ai ciclisti “dopati” o “codardi”: smettiamo di aspettarci che gli atleti siano di esempio per chicchessia, e lasciamo alla giustizia (ordinaria e sportiva) qualsiasi valutazione sull’individuo

27.10.2023 15:25

L’argomento è spinoso, ma vale la pena affrontarlo. A dicembre dello scorso anno il calciatore Manolo Portanova è stato condannato, in primo grado, per violenza sessuale di gruppo: messo fuori rosa dal Genoa a furor di popolo, durante la finestra di mercato di gennaio era stato proposto al Bari, incontrando anche in quel caso la resistenza della tifoseria, e il trasferimento saltò. La scorsa estate, invece, la dirigenza della Reggiana ha ritenuto di mettere ugualmente sotto contratto il giocatore, noncurante degli strali che pure si erano alzati da parte della propria curva e Portanova, ad oggi, è uno dei giocatori chiave della squadra.

Ebbene, perché parlare di tutto questo su un sito di ciclismo? Perché in fondo il tema è trasversale a tutti gli sport e ha a che fare con la pretesa che gli atleti assurgano a modello per la società e, in particolare, per i giovani. Da qui all’indignazione per qualsiasi vicenda poco commendevole, dal corridore pizzicato all’antidoping a quello che spara ad un gatto con un fucile ad aria compressa, il passo è breve.

Ma dove sta scritto che uno sportivo debba essere di esempio per gli altri? O quantomeno, perché proprio gli sportivi dovrebbero incarnare un modello di comportamento addirittura a partire dalla loro sfera privata, mentre non si richiede lo stesso agli artisti – il cui fascino, anzi, risiede spesso anche in alcuni loro eccessi, su cui però siamo ben più facilmente inclini a chiudere un occhio, se non tutti e due – e non ci si aspetta nemmeno dai politici eletti – e, quindi, nostri rappresentanti – lo stesso rigore morale che, invece, chiediamo ad atleti, ciclisti e calciatori? 

Perché mai uno sportivo professionista, in quanto tale, deve costantemente essere sottoposto al Tribunale Morale dell’Opinione Pubblica anziché essere giudicato, come qualsiasi altro lavoratore, solo sulla base del comportamento tenuto, e dei risultati conseguiti, nel proprio ambito professionale? «Perché guadagna miliardi!!!!». «Perché deve la sua fama ai tifosi!!!!». Le sento già, le obiezioni più comuni. E però non tutti gli sportivi, nemmeno di alto livello, sono necessariamente dei ricconi sfondati: dipende dalle discipline. Né, tantomeno, si diventa campioni in uno sport perché mossi, unicamente, dal desiderio di popolarità.

Prendiamo Alex Schwazer: non crediamo che abbia scelto di praticare la marcia per entrare nel jet-set e se, oggi, si ritrova nella casa del Grande Fratello, è proprio per esserci finito suo malgrado, in quel vortice. E proprio dopo gli scandali doping che l’hanno travolto. Altrimenti, crediamo, l’altoatesino sarebbe rimasto volentieri alla larga dai riflettori, e avrebbe continuato a fare i sacrifici dell’atleta mosso dalla – assolutamente legittima – fame di successi e dalla voglia di autorealizzazione che, chi più chi meno, sono alla base delle ambizioni e dei progetti di ognuno di noi.

E torniamo a Portanova: abbiamo scelto volutamente il caso forse in assoluto più controverso, che ha a che fare con un crimine odioso come la violenza sessuale e non con un peccato tutto sommato veniale come, invece, può essere il ricorso al doping, proprio per ribadire un principio che deve essere valido sempre, anche quando è umanamente difficile accoglierlo e, quindi, metterlo in pratica: e cioè che un conto è il giudizio sull’uomo e altra cosa quello sullo sportivo. Che si può essere al contempo un campione nella propria disciplina e una pessima persona in privato. Che chi vince i tornei dello slam o i grandi giri non deve per forza essere anche un santo, al cui passaggio guariscono gli storpi e riacquistano la vista i ciechi. Che non basta, quindi, avere compiuto azioni abiette nella vita di tutti i giorni per essere automaticamente messi al bando anche nello sport, perché è all’autorità giudiziaria e a quella sportiva che compete deliberare, ciascuna nel proprio ambito, quali sanzioni comminare: sempre sulla base del diritto, e non del televoto.

E se questo, ribadiamo, è valido per Portanova – su cui è bene che la giustizia faccia il proprio corso, ma che nel frattempo ha tutto il diritto di continuare a giocare – figuriamoci, quindi, se è il caso di mettere in croce uno sportivo di qualsivoglia disciplina, e nel nostro caso un ciclista, per i propri comportamenti lontano dalla bicicletta. Ma nemmeno, se ci pensiamo, in caso di positività all’antidoping: perché esiste appunto la giustizia sportiva ed esistono le squalifiche, bastano quelle. A che servono la coda di indignazione e, magari, le porte sbattute in faccia al diretto interessato quando questi, una volta scontato quanto dovuto, voglia tornare a fare il proprio mestiere? Tutto questo è odioso, soprattutto, perché si presta al doppiopesismo del pubblico che, a sua volta, deriva dal diverso trattamento mediatico riservato a Tizio rispetto a Caio.

Giusto per non voler fare nomi e cognomi, pensiamo alla vicenda umana di Marco Pantani: ufficialmente mai trovato positivo ad un controllo ma fermato, formalmente, solo per ragioni di salute e solo per due settimane. Eppure, il Pirata divenne ben presto l’emblema del Truffatore e del Drogato e l’allora patron del Tour Jean-Marie Leblanc, in un’epoca in cui la discrezionalità su chi invitare alle gare era ancora totalmente nelle mani degli organizzatori, dopo l’edizione del 2000 non lo volle mai più alla Grande Boucle, basando il suo (pre)giudizio su tutto, meno che sul merito tecnico. Ma quale era stata la colpa di Marco rispetto a quella di tanti altri suoi colleghi, se non quella di essere caduto da un piedistallo più alto, e più alto solo in ragione della sua grandezza? 

Oppure, pensiamo ai tappeti rossi stesi ad Ivan Basso non appena il varesino ebbe scontata la sua squalifica per il coinvolgimento nell’Operación Puerto, e paragoniamoli all’ostracismo ricevuto invece da Davide Rebellin che, per continuare a correre, fu costretto a bussare alla porta di squadre croate, polacche, kuwaitiane e algerine, dal momento che nessun team World Tour, né comunque nessuna squadra italiana, era più disposta a fargli un contratto. E in che misura Davide era più colpevole di Ivan o di altri ciclisti? Per essersi fatto beccare sul sacro palcoscenico olimpico anziché in una qualsiasi altra corsa? Ma quanta ipocrisia!

Se ci pensiamo la stessa ipocrisia che, solo pochi mesi fa e per ragioni ancora diverse, ha portato la Trek a licenziare Antonio Tiberi per quell’assurda vicenda del gatto impallinato. Ricordiamo, infatti, che al ragazzo è stato rescisso il contratto non tanto per il fatto in sé, ma per averne parlato in un’intervista televisiva alle Iene, violando così quella clausola di riservatezza che era stata appositamente inserita nel contratto: segno evidente che la squadra già sapeva, e che era solo preoccupata che la faccenda non facesse troppo clamore. Tant’è che, all’inizio, Tiberi aveva continuato a gareggiare senza problemi, salvo poi ricevere una prima sospensione all’indomani della pubblicazione della sentenza di condanna in sede civile che, inevitabilmente, aveva reso il fattaccio di dominio pubblico.

Poi, appunto, erano arrivate le Iene e, in conseguenza di questa ulteriore sovraesposizione mediatica, il licenziamento. Alla faccia delle motivazioni con cui era stata giustificata in un primo momento la sospensione, perché se davvero – e citiamo dal comunicato stampa rilasciato allora dalla squadra – «il team si impegna ad aiutare i corridori a migliorare non solo come atleti, ma anche come uomini e donne», allora i provvedimenti andavano presi immediatamente, e doveva quindi essere proprio il team il primo a rendere noto quanto accaduto per stigmatizzarlo, da subito.

Ma anche senza tirare in ballo il doping e restando nel nostro orticello delle corse in bicicletta, pensiamo soltanto al sadismo che ci spinge ad esigere dai corridori il massimo dello spettacolo, sempre e comunque: a prescindere dalle situazioni di gara, dai percorsi, dalle condizioni meteo e da quelle della strada. E quindi alla facilità con cui li etichettiamo come codardi, mezze calzette o scioperati quando chiedono di tagliare dal percorso una certa salita, o magari una discesa o anche solo un determinato passaggio giudicato troppo pericoloso.

Pretendiamo sempre l’epica e l’eroismo e ci dimentichiamo, invece, di avere a che fare con gente che come tutti noi ha una pagnotta da portare a casa, facendo un lavoro che magari sarà più bello e appagante dei nostri, ma che rimane enormemente faticoso, e pure rischioso, e tutto sommato – ad eccezione dei big, ovvio – nemmeno così ben pagato, considerato che si può essere professionisti al massimo per dieci-quindici anni, ma che per arrivare alla pensione ne restano poi un’altra trentina in cui doversi per forza trovare un’altra occupazione, non essendoci abbastanza ammiraglie, microfoni o sponsor personali per garantire il welfare di tutti gli ex-corridori.

E allora, per concludere tornando dove avevamo cominciato, citiamo altre dichiarazioni ufficiali, quelle rese dal presidente della Reggiana, Carmelo Salerno, il cui ragionamento ci sembra mettere il punto non soltanto al caso Portanova, ma all’intera questione rispetto al giusto peso da dare agli sportivi in generale: «Non crediamo che i calciatori debbano essere modelli per i giovani, l'esempio lo devono dare le famiglie e la scuola». E ancora: «Abbiamo ingaggiato Portanova perché è un giocatore forte. Ed è l'unico giudizio che diamo perché su altre questioni non spetta a noi, la nostra verità sarà quella dei giudici. L'articolo 27 dice che ogni cittadino è libero e innocente fino al terzo grado di giudizio definitivo: fino ad allora, ha diritto a lavorare come qualsiasi altro lavoratore».

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