Tadej Pogacar e Jonas Vingegaard al Tour de France 2022 © A.S.O./Pauline Ballet
La Tribuna del Sarto

Il ciclismo è religione, ma il sospetto è fanatismo

Questo sport convive con uno scisma, una contro-chiesa fatta di messe nere imbevute di fondamentalismo moralista da cui deriva una narrazione funerea sul doping. La quale però si guarda bene dall'assumersi l'onere della prova

22.04.2023 20:00

Il bel saggio di Chiara Valerio (La tecnologia è religione, Einaudi) sottolinea la differenza tra scienza e tecnologia, riconoscendo nella seconda, o meglio nell’utilizzo di questa, una forma religiosa, magica. Secondo Valerio non c’è differenza tra la danza della pioggia ed il telecomando, in entrambi i casi un movimento del corpo fa accadere qualcosa lontano. Solo con lo studio della fisica si conoscono le onde invisibili che permettono di accendere o cambiare canale: “Il verbo della scienza è provare, quello della tecnologia e della religione è credere”.

Nell’epoca degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale è giusto domandarsi se conosciamo ciò che usiamo o semplicemente crediamo in esso. Quanti davanti a ChatGPT, vietato o meno, riconoscono i suoi limiti e potenzialità? È impossibile avere nozione di tutto e bisogna saper riconoscere il sapere altrui, dunque è corretto avere una razionale fiducia nella scienza senza cadere in una cieca fede nella tecnologia, mantenendo uno sguardo critico. Per l’uomo metodo e logica sono come fari nella notte, senza i quali è facile uscire di strada e non essere più in grado di distinguere la rappresentazione dalla realtà. I potenti strumenti tecnologici a disposizione, ed una (conseguente?) scarsa diffusione di una vera cultura scientifica, possono spegnere la luce della ragione se usati o interpretati non correttamente.

E nel ciclismo che rapporto abbiamo con la scienza e la tecnologia dello sport? Adoriamo analizzare ogni dettaglio (Watt, VAM, lunghezza pedivelle, ecc.), studiamo le caratteristiche di ogni corridore, cerchiamo di capire perché una corsa quel giorno è andata in quel modo e non in un altro, giochiamo a prevedere il futuro vincitore di questa o quella competizione. Apparentemente l’approccio così dettagliato fa pensare ad un appassionato razionale, intento a disegnare teoremi in grado di risolvere l’equazione di una corsa.

Il problema del ciclismo è che quasi mai tornano i conti, così meraviglia, stupore e sentimenti prevalgono, veniamo rapiti da un senso di magico. Anche il ciclismo è una religione!

Nel bene, quando la “fede” non ci ha allontanati da questo sport nei momenti peggiori oppure nell’inventarci mille risvolti psicologici che si nascondono dietro un mancato scatto o picco di watt; nel sacrilegio pasquale della Roubaix; nei lunghi rituali a bordo strada, messe di milioni di fedeli sorridenti tra birra e carne alla brace. Il tifoso è un innamorato in estasi davanti all’icona di un gesto atletico.

La religione del ciclismo, purtroppo, ha il suo scisma, una contro-chiesa del sospetto. Troppo spesso davanti ad una prestazione atletica straordinaria sentiamo il solito coro sul doping, l’accusa gratuita, priva di prove concrete, con fantomatici limiti fisiologici evocati come tavole della legge scritti nel libro della natura.

Una narrazione del doping che confonde la rappresentazione con la realtà perde il valore del significato simbolico del linguaggio, facendo della parola, la propria ovviamente, la Verità assoluta; stesso procedimento del rito magico atto a modificare o provocare un fenomeno.

Soprattutto questa narrazione non è più in grado di distinguere il doping da ciò che non lo è. Un’aura magica e funerea circonda il progresso nello sport, si evocano sostanze misteriose ed alchimie malefiche, il tutto fa sì che la lettura del ciclismo sia costantemente distorta. Dunque, turbati, confusi ed impotenti, si lanciano appelli per una competizione “a pane ed acqua”; niente di più lontano, non solo dalla realtà presente dello sport, ma dalla stessa natura umana.

È moralismo! Un tratto costante di ogni fondamentalismo religioso.

È più facile lanciare un’accusa di doping, piuttosto che capire un fatto, saper distinguere quando un performance enhancing è doping e quando no. È più facile chiedere che l’imputato provi la sua innocenza, piuttosto che avere l’onere di dimostrare l’accusa. Quante volte abbiamo letto richieste all’atleta di documentare come ha potuto superare i limiti fisiologici del corpo? Ma quali limiti? I più arditi si spingono a redigere soglie di allarme, la cui base e razionale scientifico rimangono vaghi, magia appunto.

In realtà la complessità della fisiologia umana, che non ha dogmi come tutte le altre scienze, è fatta di piccoli o grandi passi della conoscenza, procede a tentativi ed ogni suo avanzamento ha il dovere di essere messo in discussione. Faticoso il metodo scientifico, ma necessario ed obbligatorio.

Anni fa, il mio professore di fisiologia all’Università, durante una lezione sull’apparato respiratorio, ci raccontò questo aneddoto. Secondo la fisiologia umana del tempo, si riteneva impossibile un’apnea sotto una determinata profondità di immersione. Il racconto vuole che un noto professore alla vista dell’impresa del grande apneista, Jacques Mayol, in grado di superare i limiti umani ipotizzati allora, prese il suo testo e lo strappò.

Possiamo solo supporre i confini prestazionali del corpo umano, ma mai potremmo avere la certezza di questi. Inoltre si torna sempre al solito punto, già espresso nella Tribuna del Sarto, qual è il limite tra natura e cultura, tra artificio e non? La stessa natura umana, con il suo pensiero simbolico, rende questo confine poroso, fatuo, invisibile. Anche la cultura è biologica! Solo sulla base di un dato prestazionale e senza alcuna prova, è fanatismo religioso lanciarsi in accuse gratuite ad atleti oppure in richieste di fantomatiche spiegazioni o confessioni.

La tesi della Valerio, che afferma che la tecnologia è religione, è dunque corretta anche nello specifico dello sport. Oggi gli algoritmi ci deresponsabilizzano, viviamo nell’epoca in cui la tecnologia scinde la teoria dalla prassi, la mente dal corpo; dove la morale pretende un ideale di sport che non può esistere; ci ergiamo ad inquisitori di un fenomeno culturale di cui siamo noi stessi autori.

È necessario studiare, approfondire la natura dello sport, per far sì che la narrazione funerea di questo venga vinta; infine, riconoscere Scienza la scienza dell’allenamento, la cui cognizione permette una sua lettura, controllo e corretto utilizzo. Altrettanto giusto che il ciclismo mantenga il suo alone magico, iconico, tra numeri e sentimenti - non di sola ragione vive l’uomo - nella speranza che le messe nere del sospetto vengano cancellate per sempre con birra ed arrosticino a bordo strada.

La crisi infinita del ciclismo tedesco
E l'ora della grande sfida infine arrivò: Tadej vs Remco, fuori i secondi!