Editoriale

A scuola di ciclismo con Jai Hindley

Una riflessione uscita di getto dalla mente alla tastiera, forse ingenua ma senz'altro sincera, su come l'australiano ha insegnato a tutti come si smentiscono le previsioni

06.07.2023 18:03

Capita che un giorno un uomo di classifica decida di buttarsi nella fuga del mattino alla prima tappa di montagna del Tour de France, per rovesciare i pronostici in anticipo e scardinare le regole del gioco; regole che di fatto squadre e corridori si sono autoimposti negli ultimi decenni perché succubi del terrore di saltare per aria. Capita poi nel frattempo, da tutt'altra parte, che dei giovani ragazzi chiedano ad un direttore sportivo: "ma perché si è buttato in fuga? Non ha senso".

Ammetterete che posto così, il capolavoro messo in atto circa 24 ore fa da Jai Hindley assume i connotati di una favola senza tempo in grado di descrivere i problemi strutturali di quest'epoca ciclistica e, ancor di più, di quella immediatamente precedente. Perché se da un lato questa è l'epoca in cui Pogačar, Evenepoel, Van der Poel o chi altro si inventano numeri fuori dal comune, è anche l'epoca in cui molti dei protagonisti meno dotati di talento cristallino continuano a muoversi secondo lo schema modernista dei trenini e dello scatto all'ultimo km, fatto reso ben evidente dall'ultimo Giro d'Italia. E questo è ben evidente anche dal modo di ragionare degli appassionati e dei cosiddetti esperti, ovvero dal modo in cui si esprimono da un lato l'opinione pubblica e dall'altro i mezzi di comunicazione. Un fatto che è sintetizzato proprio da quei quattordicenni di cui sopra, che sono talmente assuefatti dall'idea di un unico schema tattico possibile al punto di pensare che un uomo di classifica che si getta nella fuga del mattino sia un pazzo.

La verità è che invece Hindley (o chi lo ha consigliato dietro le quinte) ha fatto esattamente ciò che il terzo incomodo fra i due litiganti deve fare, ovvero non arrendersi all'idea di giocare per il terzo posto, ma al contrario studiare il modo più intelligente e funzionale possibile per tentare di vincere. Dopo tutto non esiste una regola imposta dall'UCI per cui tutti debbano aspettare un momento prestabilito per mettere in scena il confronto diretto, anche se ogni tanto sembra che il ciclismo funzioni così. Sono anni che il sottoscritto pronostica la possibilità di gettarsi in una fuga in partenza per ribaltare le sorti di una corsa, speranze quasi sempre disattese; sono anche anni in cui, al contrario, dalle cabine di commento si ripete come un mantra che l'obiettivo di tutti deve essere isolare gli avversari, tant'è che capita di sentire telecronisti esaltati perché un capitano rimane senza compagni ad 1 km dalla vetta dell'ultimo GPM di giornata, come se realmente questo avesse un impatto sulla corsa. Ieri Hindley ha dato lezione a tutti di come veramente si isolano i capitani, ovvero costringendo le squadre altrui a tirare per oltre 100 km e facendo sì che i favoriti di turno (in questo caso addirittura Pogacar e Vingegaard) abbiano dovuto percorrere praticamente da soli tutto il tratto più duro dell'ultima salita restando al vento molto presto, ad oltre 20 km dal traguardo.

Tra di voi qualcuno si starà chiedendo: "Ma come sarebbe a dire? Proprio negli anni in cui Pogačar sta dando il meglio di sé, attaccando quando vuole, magari anche approfittando dei traguardi volanti delle tappe per velocisti, volete dirci che Hindley è un rivoluzionario?" Ebbene sì. Perché quando tutto ciò viene fatto da Pogačar, viene derubricato come la follia di un fenomeno, che se le può permettere per il fatto stesso di essere un fenomeno. Ma come la mettiamo adesso che la manovra (solo apparentemente pazza, in verità pensata con raziocinio) l'ha fatta il tanto vituperato Jai che si porta dietro il fardello di essere stato secondo dietro Gheoghegan Hart e poi vincitore in due edizioni del Giro ritenute (anche queste erroneamente) di infimo livello? Il fatto che l'australiano venga per la prima volta al Tour da capitano ed insegni subito a tutti come si fa a mettere nel sacco, almeno per un giorno, i presunti dominatori di una corsa, non solo dimostra una volta di più il vero valore del ragazzo e dei Giri d'Italia che lo hanno visto protagonista, ma scardina anche il teorema del fenomeno, precedentemente enunciato. Finché ad animare la corsa da lontano era Pogačar abbiamo ipocritamente detto che poteva farlo soltanto lui; quando poi Vingegaard ha battuto Pogacar si è scelto di etichettare pure lui come fenomeno, forse inflazionando il termine; ma adesso che l'ordine viene sovvertito da un Hindley qualunque, ad oggi nettamente inferiore ai due sopraccitati come dimostrato sul Tourmalet, che spiegazione ci diamo? Vogliamo seriamente continuare a sostenere che non esiste modo diverso di muovere le corse se non aspettando la salita più dura? Vogliamo continuare ad immaginarci questo sport così scontato da far pensare agli attuali ragazzini che guardano il Tour in televisione che l'unico modo possibile di correre sia attendere in gruppo la volata o la salita finale?

Certo è che forse Hindley, senza l'apparizione - per così dire - traumatica sulla scena di Pogačar & co., ieri non sarebbe riuscito in questo piccolo capolavoro tattico. Quando Nibali nel 2012 provò in circostanze diverse a mettere in scena lo stesso trucco fu invitato da Valverde a rialzarsi perché lo Squalo avrebbe ostacolato l'interesse dei fuggitivi di giocarsi il successo di tappa. Se questo oggi non è successo è proprio perché in questi anni il gruppo si sta comunque abituando ad un approccio diverso. Chi ancora non si è adeguato sono appunto il pubblico e i media, che ignorantemente ritengono straordinario e fuori dal comune ciò che in fondo fino ad una ventina di anni fa era percepito come un modo ordinario (per quanto spettacolare ed accattivante) di attaccare l'avversario. Perché in fondo si tratta di questo: aver trovato il metodo con più garanzia di successo, ma al contempo economico e funzionale, di staccare chi appariva imbattibile. Quello che nessuno, con avversari ben meno solidi, ha avuto il coraggio di fare all'ultimo Giro d'Italia, un Giro che se Hindley avesse corso, magari avrebbe rivinto.

Perché se è vero che oggi Hindley è tornato, come si dice in Toscana, “nei su' cenci”, è pur vero che si assicurato un ampio bottino per difendere il terzo gradino del podio, oltre al fatto di aver scombinato le dinamiche di corse provocando indirettamente la crisi di Pogacar e mettendo lo stesso Vingegaard nella condizione di inseguire, elementi che hanno concorso a determinare l'altro eccezionale spettacolo visto oggi. Non solo: chi ci vieta di sognare che Jai, per il momento sempre a 1'34" dalla maglia gialla, dunque niente di terrificante, ritenti la stessa mossa o qualcosa di simile sulle Alpi o sui Vosgi? Qualcuno potrebbe rispondere che non lo farà perché sarebbe troppo rischioso ed è più conveniente difendere il podio, ma proprio ieri l'australiano ha dimostrato che quella in fondo è stata la mossa più logica e potrebbe esserlo in altre occasioni. In tappe come quelle di Morzine, Courchevel o Markstein con salite sparse un po' ovunque e poca pianura in cui far tirare i compagni, dove è scontato che ci sia bagarre per far sganciare la fuga, entrare in un gruppo di 30 attaccanti e lasciare indietro il primo e il secondo della classifica non significa spendere più di loro, ma soltanto avvantaggiarsi. 

In conclusione, Jai vince poco, non è per niente appariscente e non è sicuramente un personaggio facile da vendere sulle copertine delle riviste. Ma intanto ha dato una lezione indimenticabile di ciclismo a tutti. Vincere così, significa avere una mentalità da vincente e questo basta per renderlo, a suo modo, un faro di quest'epoca. 

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Francesco Dani
Volevo fare lo scalatore ma non mi è riuscito; adesso oscillo tra il volante di un'ammiraglia, la redazione di questa testata, e le aule del Dipartimento di Beni Culturali a Siena, tenendo nel cuore sogni di anarchia.