Gaza © ANSA
L'Artiglio di Gaviglio

Perché un sito di ciclismo non deve parlare solo di ciclismo

Dalla guerra di Gaza (e le polemiche su Israel/Free Palestine) ai coltivatori francesi che mettono a rischio l’Étoile de Bessèges: lo sport è immerso nella politica, e ignorarlo è da ipocriti

02.02.2024 19:36

«Su un sito di ciclismo mi aspetterei che si parlasse solo di sport. La politica lasciamola fuori». Sono stati tantissimi i commenti del genere, da parte dei lettori, in seguito alla presa di posizione di Cicloweb sulle responsabilità di Israele nella guerra di Gaza. Ora, senza entrare nel merito della specifica questione (o, per meglio dire, della Questione per eccellenza, che è appunto quella palestinese) trovo sia doveroso contestare proprio l’obiezione a monte: e cioè che un sito di ciclismo dovrebbe attenersi alla stretta cronaca delle corse e ad una valutazione tecnica delle squadre, ignorando il contesto geopolitico e storico nel quale le corse si dispiegano e che giustifica l’esistenza stessa di certe squadre.

Per restare in tema, in occasione del Giro d’Italia 2018 ci si sarebbe dovuti limitare ad una mera analisi del percorso del cronoprologo inaugurale sorvolando sull’imposizione, fatta dagli israeliani ad RCS, di rimuovere il sostantivo “Ovest” accanto a “Gerusalemme” da tutti i materiali ufficiali della corsa? E magari ignorare le motivazioni politiche per le quali Israele aveva scelto di ospitare uno dei massimi eventi mondiali di ciclismo, e cioè proprio dello sport che svolgendosi strada per strada, e non all’interno di asettici stadi o palazzetti che la sociologia definisce “nonluoghi”, più di tutti è strettamente connesso al territorio che lo ospita?

Lo sport interrelato alla politica: una lunga storia

Il podio dei 200 metri a Città del Messico 1968 © Wikipedia
Il podio dei 200 metri a Città del Messico 1968 © Wikipedia

Ma andiamo ancora più a ritroso nel tempo, e travalichiamo lo stretto ambito di Cicloweb e del ciclismo. Parliamo, ad esempio, delle Olimpiadi del 1936 a Berlino: i cronisti di allora si sarebbero dovuti attenere esclusivamente al resoconto delle gare? Le vittorie del non esattamente ariano Jesse Owens sarebbero dovute passare agli archivi alla stregua di tutti gli altri risultati di quei Giochi? E la maglia nera indossata dalla nazionale di calcio italiana ai successivi Mondiali di Francia, nel 1938, si sarebbe dovuta ascrivere ad una semplice scelta estetica scevra di ogni ulteriore significato?

E come raccontare, poi, il pugno chiuso di Tommie Smith e John Carlos a Città del Messico ’68: un semplice gesto di esultanza per la doppietta nei 200 metri? Oppure quattro anni più tardi, a Monaco ’72, i quotidiani sportivi avrebbero dovuto concentrarsi sui sette ori di Mark Spitz senza dare conto del massacro degli atleti israeliani compiuto dai terroristi palestinesi di Settembre Nero? Il presidente Nixon, in quello stesso anno, scelse forse di visitare la Cina solo perché mosso da un’irrefrenabile passione per il ping-pong? 

Può piacere o no ma la politica – se non, addirittura, la Storia – passa anche per un fenomeno squisitamente sociale (perché collettivo) come lo sport: specie quello agonistico e praticato ai massimi livelli che, da sempre, è anche rappresentazione simbolica dei rapporti di forza tra le nazioni e dell’immagine (di potenza) che ogni nazione vuole offrire di sé stessa. Altrimenti, per tornare ai nostri giorni, non si spiegherebbe l’improvvisa infatuazione degli emiri per il calcio, la Formula Uno e perfino per il ciclismo.

Gli ambientalisti, i trattori… Gaza: come lasciarli fuori dalle nostre cronache?

Ed ecco perché non ha senso, quando si parla di sport, «parlare solo di sport»: altrimenti non si capirebbero le ragioni di chi talvolta blocca il passaggio di una gara per sensibilizzare su una crisi aziendale o una qualsiasi emergenza sociale; quelle dei militanti ambientalisti che si incollano mani e piedi all’asfalto e tengono in scacco il Mondiale di Glasgow per quasi un’ora; o quelle degli agricoltori francesi che, per venire alla strettissima attualità, con le loro manifestazioni mettono in discussione il regolare svolgimento dell’Étoile de Bessèges. Con il risultato, per il lettore desideroso che si parli soltanto di ciclismo, che venendo a mancare il contesto, alla fine, il problema sia solo che non si corre l’Ètoile de Bessèges, e stigrancazzi le motivazioni dei contadini francesi! 

E invece no: se in questi giorni mezza Europa è percorsa dai trattori di coltivatori imbufaliti, con l’estrema destra (tedesca!) a cavalcarne le proteste, conta. Perché è un problema che alla lunga potrebbe investire tutti noi, anche chi non ha mai preso in mano una zappa, andandone della tenuta delle nostre democrazie. Se dei ragazzi ci guastano l’hype del Mondiale di ciclismo per ammorbarci con la crisi climatica, forse faremmo meglio ad ascoltarli, invece di bollarli come dei viziati rompicoglioni. E se una mezza dozzina di lavoratori cassaintegrati ci rovina il tappone dolomitico sdraiandosi in cima al gpm, invece di mandarli affanculo, potrebbe convenirci sapere cosa hanno da dire, perché la prossima volta potrebbe toccare a noi.

E se poi toccasse a noi quello che Israele sta facendo da qualche mese a Gaza, e da più di cinquant’anni in Cisgiordania, vorremmo eccome che se ne parlasse, e perfino sulle Pagine Gialle, sui bugiardini delle medicine e sulle porte dei cessi degli autogrill, mica soltanto su un sito di ciclismo!

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