Il doping nello sport, un problema anche di narrazione © Wikipedia
La Tribuna del Sarto

Un approccio ecologico per salvare gli sportivi da se stessi

Lo sport professionistico invita ad andare oltre i limiti umani, contro natura; però si pretende che chi lo pratica non faccia ricorso ad artifici. Una narrazione ipocrita che non combatte il doping ma distrugge le persone

28.01.2023 11:00

Nella Tribuna del Sarto abbiamo già accennato al tema della cultura del limite nello sport (Gianluca Vialli, Dino Baggio, il doping: una roulette pazza), in quel caso auspicando che tale limite fosse riparametrato al fine di liberare l'atleta dalla spinta a mettere a rischio la propria salute.

È nella natura dello sport moderno cercare di trovare il limite prestazionale del proprio corpo per vincere o comunque per fare il meglio possibile. La stessa ricerca del record è una caratteristica intrinseca dello sport moderno, assente negli sport antichi e nei folk-sport sparsi per il mondo.

Quindi discutere ed approfondire il tema del limite non è un esercizio speculativo fine a se stesso, ma serve a domandarsi quale sia la natura profonda dello sport e del ruolo che questo ha avuto, ha ed avrà nella nostra società. Inoltre, è un concetto che interroga la nostra stessa essenza umana, del nostro rapporto con la Natura e del fine del progresso scientifico.

Lo sport moderno è un terreno in cui le contraddizioni e preoccupazioni del progresso scientifico e sociale vengono ad essere subito evidenti, ponendo quesiti etici di difficile soluzione, ma stimolanti per una riflessione che può superare anche i confini dello sport stesso. Proviamo a fare qualche esempio.

Oggi un uomo ha la possibilità di cambiare sesso, diventando donna anche da un punto di vista giuridico. Nello sport questa opportunità apre un importante interrogativo: con chi deve gareggiare costei? È giusto che gareggi con le donne? Il CIO in passato aveva scelto un compromesso molto discutibile scientificamente, infatti permetteva a una persona di gareggiare tra le donne se il suo profilo ormonale fosse femminile da almeno 12 mesi. Questa era evidentemente una decisione che lasciava molti dubbi, essendosi quella persona sviluppata come uomo negli anni più importanti della crescita, quindi conservando un vantaggio genetico che la natura maschile ha, ad esempio, nella forza e nella velocità.

D’altro canto, dal punto di vista sociale quella persona è a tutti gli effetti una donna, negarle la partecipazione ad eventi sportivi del suo attuale genere è di fatto, anche senza essere schiavi della cultura del politicamente corretto, un atto discriminatorio. Allora come uscire da quest'impasse?

Nel 2021 il CIO, constatato che l’esame ormonale non aveva risolto per nulla la questione, anzi, ha redatto un nuovo regolamento secondo cui gli atleti potranno gareggiare nella categoria che maggiormente li rappresenta, incaricando ogni federazione di verificare, da un punto di vista scientifico, se questo non crei un eccessivo vantaggio. Lo stesso regolamento stabilisce che nessun test può essere fatto per determinare il genere di appartenenza. Un passo avanti, specie politico e per la dignità dell’atleta, ma dare una valida risposta scientifica è davvero difficile, se non impossibile, senza aver chiaro quale sia la profonda natura dello sport. La scienza può aiutare, ma che criteri userà ogni federazione per definire se vi sia o meno un vantaggio? È una domanda solo in parte scientifica, è soprattutto culturale.

Altro esempio riguarda più il futuro prossimo, la genetica. Da più di un decennio nello sport si parla di doping genetico, già inserito nella lista WADA come metodo proibito. Domani tecniche di terapie genetiche, sempre più avanzate, sicure e precise, saranno in grado di curare malattie attualmente prive di speranza di guarigione. Se una terapia genetica, pur con un fine di cura, offrisse un vantaggio sportivo, il beneficiario potrà gareggiare con gli altri? Il vantaggio artificiale viola lo spirito dello sport? Anche in questo caso, lo sport entra in contraddizione con alcuni principi di diritto di cura e riconoscimento della persona come essere umano.

Se lo sport non ha chiaro il concetto di limite, di fine-scopo, del suo ruolo simbolico nella nostra società, come può riuscire a rispondere ai quesiti qui sopra esposti? A mio parere, il cuore della discussione riguarda il corpo dello sportivo, il suo significato antropologico e politico assunto ad oggi.

Non è un caso che i grandi marchi facciano a gara per avere come testimonial personaggi del mondo dello sport; modelli (ir)raggiungibili, matrice dell’uomo moderno da ammirare, imitare. Il corpo dell’atleta efficiente e produttivo, in linea con la filosofia capitalista e lo stacanovismo novecentesco, non ha come limite la natura fragile del fisico e della psiche, ma la supera nel suo modello di nietzschiana memoria: un modello “immortale”.

In tutto questo il doping assume tutt’altra dimensione, non più un esercizio illecito che inquina l’idilliaco mondo dei buoni sentimenti sportivi, ma un’organica ed inevitabile conseguenza dell’essenza dello sport moderno e dalle sue contraddizioni. Anziché cercare il limite prestazionale nella natura, ovvero in rapporto armonico/ecologico con la natura umana e con le sue fragilità, lo sport va oltre: spinge il corpo oltre i suoi limiti fisiologici, quindi oltre la natura umana, con l’aiuto dell’artefatto medico e tecnologico. Non è più distinguibile la natura umana dall’artificio.

Potrebbe sembrare un eccesso di significati, in fondo lo sport è un passatempo che solleva le persone dalle fatiche quotidiane, un piacere; eppure lo sport non è più un fenomeno secondario nelle nostre società. Esso è presente sempre ed ovunque, non più strumento della politica (panem et circenses), ma esso stesso politica (questa trasformazione merita un approfondimento a parte).

È tempo che lo sport prenda atto di questa sua evoluzione (degenerazione?) ed importanza; che ponga la salute, la fragilità fisica e psichica al centro, al fine di proteggere il corpo dell’atleta e cambiarne il suo valore simbolico; che sappia immergersi nella Natura e nel proprio rapporto con essa, dandole un “significato”; che faccia i conti con l'umanità ed animalità di chi lo pratica anche ai massimi livelli. Tutto questo darebbe luogo a una nuova accezione ecologica, nel vero senso del termine, dello sport.

E in quest’ottica deve essere riparametrato il nuovo limite. Se l'artificio (meccanico, chimico) sia accettabile o meno dipende dall'idea di sport che si avrà in un'ipotetica nuova cultura. Un approccio meramente naturale (lo sportivo deve ottenere i propri risultati non andando oltre il limite imposto dalla natura) negherebbe ovviamente qualunque aiuto esterno, ma come abbiamo già visto questa idea è un'utopia, o quantomeno una falsa narrazione che oggi è però ancora maggioritaria: la realtà ci dice che lo sport vuole superare i limiti fisici, quindi andare oltre la natura; il racconto pretenderebbe invece che lo sportivo superasse in maniera naturale la propria natura. In pratica quella che ci viene narrata come realtà è una evidente contraddizione in termini.

Nello sport di oggi dov'è il confine tra artificio (cultura) e fisiologia umana (natura)? Se corro la maratona sotto le due ore con scarpe speciali, è davvero un nuovo limite superato dall'uomo oppure è un grande esito culturale? Armstrong era forte oppure no? Non si può rispondere senza aver chiaro cosa sia artificio/cultura e cosa natura.

Una nuova auspicabile interpretazione potrebbe essere quella che definisce lo sport prima di tutto come uno strumento che permette all'uomo di muoversi, combattere la sedentarietà, in ultima analisi come uno strumento di cura; anche lo sport di élite si adeguerà e potrà accettare certi compromessi (una terapia genica che cura una malattia e contemporaneamente fornisce un vantaggio atletico, oppure un farmaco che toglie il dolore o previene l'infortunio).

Ad esempio, se l’artificio, come può essere una terapia genetica, è inserito in una concezione di sport e salute, ma anche di sport come strumento di cura, è giusto che il soggetto trattato possa gareggiare, pur con l’ipotetico vantaggio, ma se la stessa modifica genetica avviene senza una chiara necessità di cura, a scopo eugenetico, nella stessa concezione dovrebbe essere proibito, perché l'obiettivo ultimo resterebbe la salute dello sportivo e non la sua performance. E l'artificio sarebbe considerato lecito solo in base al criterio di salute, plasmato sul nuovo simbolico corpo d’atleta, e all’equo accesso all'artificio stesso.

Posso tollerare un uso se un metodo o sostanza protegge il corpo da infortuni o dolori, non lo tollero se pone, anche solo ipoteticamente, in pericolo l’atleta. E ciò vale anche per aspetti non necessariamente correlati al doping: il peso, la salute mentale, lo stress, eccetera. Porre la tutela della salute come concetto prioritario rispetto alla veridicità del risultato sportivo significa avere la dignità psico-fisica dell’atleta, di élite o amatoriale, come essenza e ragione di essere dello sport.

Praticamente una rivoluzione copernicana dell’attuale sport ed anti-doping.

Infine, solo con una nuova visione e cultura dello sport si può vincere il doping. La “guerra contro il doping” non ha bisogno di buoni medici e poliziotti, ma di buoni antropologi e politici, che sappiano ricollocare lo sport nella nostra società, conservando gli innumerevoli aspetti positivi che questo possiede, sempre nella cultura del giusto limite.

A quel punto il difficile confine tra doping e no-doping non sarà più tracciato solo su deboli verità scientifiche, comunque sempre necessarie; né determinato da scelte (geo)politiche o mode temporanee, ma da una collocazione e fine che avrà lo sport nella nostra società, nel valore simbolico del corpo di un atleta sano. Eliminare il doping con l’attuale cultura del limite, o ultra-limite, è utopistico, un esercizio ipocrita alla ricerca del capro espiatorio di turno.

La speranza è uno sport che si preoccupi prima di tutto della diffusione dell’attività fisica e dell’esercizio fisico a tutta la popolazione, dove l’élite sia un’espressione di una larga e diffusa base in stato di benessere psicofisico. È una decisione politica scegliere dove investire le risorse, non solo economiche, perché un ricco medagliere per una nazione ha un altro spessore se nasce da una larga cultura sportiva, piuttosto che da uno sport limitato ad un’élite di dotati.

Se il favoloso medagliere del nuoto italiano agli ultimi Europei fosse stato frutto di una politica di una piscina in ogni scuola, non avrebbe avuto un altro valore e prestigio? L’auspicio è uno sport per tutti, ecologico ed umano; uno sport per l’uomo e non contro l’uomo.

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