Il ct Dino Salvoldi con alcuni ragazzi della nazionale juniores della pista © Federciclismo.it
Editoriale

"I nostri ragazzi si allenano poco": ma Dino Salvoldi ha proprio ragione?

Le indicazioni date alle società dal ct azzurro degli juniores nelle ultime settimane hanno riacceso il dibattito sul movimento giovanile italiano: siamo sicuri che guardare all'estero sia la soluzione?

04.02.2023 19:35

Con l'inizio della nuova stagione l'attuale commissario tecnico della nazionale italiana juniores Edoardo Salvoldi sta svolgendo una serie di incontri presso i vari comitati regionali per incontrare i tecnici delle società di categoria. In queste occasioni è stato chiarissimo sulla sua insoddisfazione rispetto all'annata appena trascorsa e sul fatto di percepire il movimento italiano come nettamente inferiore rispetto a quello di altri paesi europei e non solo.

È evidente che la gestione dei nostri giovani ha delle grosse lacune, che spesso dipendono dalla poca lungimiranza di alcuni dei tecnici che Salvoldi stesso sta incontrando; non bisogna al contempo sottovalutare il fatto che i risultati di un ragazzo dipendano sempre innanzitutto dal talento che ha a disposizione e la crescita di ciascuno va vista in relazione al caso singolo, senza generalizzare.

Partendo da questi presupposti le osservazioni fatte da Salvoldi - che adesso vedremo nel dettaglio - appaiono tanto utili a ridestare il nostro movimento quanto sommarie nel cadere in un concetto tutto sommato banale: all'estero si allenano di più e meglio. Nello specifico quelli che Salvoldi espone negli incontri con direttori sportivi e preparatori sono i risultati di una sorta di sondaggio fatto da lui stesso dialogando con ciclisti e ct delle altre nazionali.

 

Quanti chilometri fanno in un anno in media gli atleti juniores della vostra nazione?
ITALIA: 18.350
UE: 23.000
differenza tra ITALIA e UE: -20% ca

Quante ore si allenano a settimana gli atleti (compresa la gara)?
ITALIA: 14,75h
UE: 18,5
differenza tra ITALIA e UE: -20% ca

Quante gare fanno in un anno gli atleti?
ITALIA: 38
UE: 38
differenza tra ITALIA e UE: =

Quante volte affrontano in allenamento una salita da 25′ gli atleti juniores in una stagione?
ITALIA: 20
UE: 31
differenza tra ITALIA e UE: -35% ca

Quante volte affrontano allenamenti di oltre 5 ore gli atleti in una stagione?
ITALIA: 3,5
UE: 16
differenza tra ITALIA e UE: -78% ca

Quanti giorni di recupero fanno alla settimana gli atleti?
ITALIA: 1
UE: 1
differenza tra ITALIA e UE: =

 

Si tratta di domande che in parte centrano dei punti interessanti, il punto tuttavia è giudicare le risposte con occhio critico e non approssimativo. Ma nel momento in cui Salvoldi presenta questi dati affermando qualcosa del tipo “non sto dicendo che sia meglio in un modo o nell'altro, fatto sta che all'estero si allenano molto di più e vanno molto più forte”, la domanda che ci poniamo è: è davvero il massimo che riusciamo ad estrapolare da questi dati?

Tralasciando il dato sulla quantità dell'allenamento (km annuali, ore settimanali), emergono dati probabilmente più specifici e per questo utili. Ad esempio sarebbe un buon punto di partenza quello sulle gare affrontate in un anno, che però va analizzato al netto di un'altra informazione che Salvoldi ha riportato ma non ha inserito nell'elenco di cui sopra: all'estero si corrono molte più corse a tappe nei rispettivi paesi di provenienza. Ne consegue che sarebbe forse più interessante indagare sul numero di giorni di corsa totali anziché sul dato secco del numero di corse a cui si è preso parte: se in Italia i due dati tendono a coincidere, all'estero dovrebbero divergere maggiormente per i motivi appena riportati.

Questo fa tutta la differenza del mondo, perché partecipando a 5 corse a tappe (numero a caso, ma indicativo della situazione descritta da Salvoldi per l'estero) i giorni di corsa sono almeno 10 o 15 in più; inoltre, come corollario, correre molto di più significa anche alzare più velocemente la quota dei km annuali complessivi, riducendo la differenza tra Italia e Europa per quanto riguarda i km percorsi in allenamento.

Siamo dunque sicuri che il problema sia che ci alleniamo troppo poco? O forse è l'impostazione del calendario ad avere delle pecche? Ed è in questo senso che dobbiamo interpretare anche la domanda sulle salite di oltre 25': se all'estero sono abituati a fare corse a tappe, magari alcune di queste anche con almeno una salita vera, saranno conseguentemente abituati ad allenarsi su quel tipo di terreno sapendo di doverlo affrontare in corsa. Ergo il problema in Italia - forse - non è che non ci alleniamo su salite lunghe, ma che queste sono quasi completamente assenti dalle nostre corse. 

Già Marco Gaviglio ha tracciato una pennellata puntuale sul tema nel suo ultimo Artiglio (La globalizzazione (nel ciclismo) ha fatto anche cose buone): in Italia da un lato abbiamo una marea di circuiti pianeggianti e dall'altro siamo ancora avvinghiati all'idea che basta mettere dislivello a caso per rendere dura una corsa; 5 salite di 5' non avranno mai lo stesso risultato di una sola da 25' e questo lo hanno capito all'estero, mentre noi no. Così ci riempiamo gli occhi di velocisti che riteniamo corridori completi (ma poi li scopriamo “solo” velocisti da professionisti) e continuiamo a stupirci della carenza di scalatori e uomini da Grandi Giri. Che necessità ha un ragazzo italiano di allenarsi sul fondo se il suo calendario si basa esclusivamente su corse di un giorno destinate a corridori esplosivi? Per chiarire meglio la questione, nei panni di Salvoldi avremmo quindi chiesto anche: “Quante volte percorri una salita di oltre 25' in corsa?”.

Si tratta di domande da cui trarrebbe gioia una fitta schiera di ragazzi praticamente ignoti che hanno tanto fondo e poca potenza e non riusciranno mai ad emergere perché oscillano a ridosso dei più forti senza fare l'exploit necessario. Una fitta schiera di ragazzi che devono sperare di avere la botta di fortuna di “sopravvivere” e finire in una squadra che partecipi al Giro della Valle d'Aosta, ma che nel 99% dei casi non ci riusciranno e scompariranno nel nulla insieme alla loro durability (come viene chiamata oggi) che ci avrebbe fatto tanto comodo nel tappone del Giro U23 in cui, guarda caso, ci siamo volatilizzati. 

C'è poi un altro punto fondamentale, centrato dal predecessore di Salvoldi, Rino De Candido, intervistato da Andrea Fin per Ciclismoweb.net: “Se l’obiettivo del tecnico è solo quello di vincere il mondiale su strada allora va individuato un gruppo di 8 atleti. Si corre tutto l’anno a livello internazionale con questi atleti, va alzato il livello dell’allenamento e si preparano gli appuntamenti principali. Se, invece, l’obiettivo è quello di far crescere l’intero movimento juniores, far fare esperienza internazionale a più ragazzi possibile e prepararli al professionismo allora il discorso è completamente diverso. […] Si può decidere di puntare al titolo in maniera consapevole: voglio vincere la maglia e del resto, compreso del futuro dei ragazzi, non mi interessa.”

Al netto di questa osservazione, ci chiediamo con Salvoldi con quale fine all'estero adottino questo approccio. Consigliamo a tutti i lettori di sfogliare l'albo d'oro del campionato mondiale juniores in linea e vedere in quanti (esclusi alcuni talenti cristallini tipo Evenepoel e Van der Poel) hanno avuto o stanno avendo carriere ricche di successi anche tra i professionisti, traendo una possibile risposta. Anche su questo l'impressione di De Candido risulta molto interessante: “Se si prendono i Paesi del nord come Danimarca e Norvegia loro sono abituati a lavorare con un gruppo ristretto di atleti tutto l’anno, corrono in funzione del mondiale ma a fine stagione i ragazzi, nella maggior parte dei casi, sono finiti. Uno o due fanno strada ma per gli altri non c’è futuro. Francia e Belgio invece lavorano come l’Italia, facendo ruotare i ragazzi, offrendo loro la possibilità di crescere. […] Non va dimenticato che Europei e Mondiali sono gare di un giorno. A volte si decidono anche solo per un colpo di reni. Anche per questo l’obiettivo dovrebbe essere la crescita del movimento nel suo complesso". E si fa presto a notare che i francesi non vincono questa prova dal 2011, mentre i belgi (escludendo Evenepoel) devono risalire al 2009 con Stuyven; viceversa i paesi scandinavi hanno vinto tre delle ultime sei edizioni.

Aggiungiamoci pure che uno di questi ultimi è Julius Johansen, il quale su strada non si è mai confermato e nel frattempo ha smesso di partecipare pure alle massime competizioni di ciclismo su pista, dopo essere stato nel quartetto iridato danese del 2020. Ed è proprio qui che stupisce come invece la nazionale italiana abbia ragionato in maniera diametralmente opposta, forse con più lungimiranza: Filippo Ganna non ha mai vinto prove mondiali o continentali nelle giovanili, per poi diventare campione del mondo sia su pista, sia a cronometro, nonché detentore del record dell'ora e potenziale protagonista anche per le corse in linea (ne abbiamo avuto una dimostrazione poco tempo fa a San Juan).

Ancor più clamoroso il caso di Jonathan Milan, corridore vittorioso nella categoria juniores, ma mai sulla bocca di tutti (era a malapena 26° in classifica nazionale), se non quella dei tecnici della nazionale che ne hanno compreso il talento e lo hanno indirizzato. Così, dopo non essere nemmeno stato convocato per mondiali ed europei da junior, è gradualmente cresciuto fino a diventare il “vice” su pista del già citato Ganna, nonché un eccezionale corridore anche su strada (lo abbiamo visto brillantissimo anche su salite arcigne nei giorni scorsi al Saudi Tour). Facemmo osservazioni simili parlando di Tiberi circa 11 mesi fa (qui l'articolo), e il nostro ottimismo di allora sul frusinate trova oggi suffragio alla luce dell'ulteriore salto di qualità del ragazzo visto di recente in Australia.

Ancora De Candido: “I team World Tour guardano molto agli juniores e di solito non scelgono quelli che vincono troppo tra i giovani, ci sarà un motivo. […] Sono cambiate tante cose ma non la maturità e la mentalità che i ragazzi possono acquisire solo con il tempo. Io sono convinto che ci possiamo adattare a tecniche nuove, preparazioni nuove, bici nuove, strumentazioni nuove che consentono di osservare anche il minimo dettaglio ma a fare la differenza sono e saranno sempre le gambe e la testa. È su questi aspetti che bisogna lavorare, soprattutto sulla mentalità dei corridori. […] A me hanno detto che esasperavo i corridori perché spronavo i miei ragazzi a correre in un certo modo… [ovvero in modo garibaldino]".

Questo è un altro punto che depone a nostro sfavore, ovvero l'incapacità di molte figure del nostro movimento giovanile di porsi innanzitutto come educatori, come figure competenti che insegnano un mestiere. Ad un esordiente, un allievo e in parte anche ad uno junior non bisogna comprare la bicicletta più bella e performante, bensì insegnargli ad inventarsi la corsa, per poter essere in grado di gestirla, abituarlo ad improvvisare correggendo gli errori tattici di volta in volta. Abbiamo toccato questo argomento commentando l'ultima prova iridata di Wollongong (Ai funerali del libero arbitrio).

Allo stesso tempo questo non significa demonizzare strumenti scientifici che ormai sono diventati di uso comune: il cardiofrequenzimetro per esempio non deve essere per forza qualcosa che condiziona il corridore o di cui addirittura costui è dipendente; un tecnico può usarlo per controllare l'andamento del cuore avuto nel corso della gara ricavando informazioni utili ad indirizzare meglio l'istinto del corridore, senza che questo vi si affidi per prendere delle decisioni. Esempio banale: se un tecnico scopre che un ragazzo si è staccato rimanendo al medio gli farà notare che lui lì non era a tutta e aveva margine, quindi lo spronerà a raggiungere un limite che ancora non conosce (provare per credere); oppure può notare che riesce a stare fuori-soglia molto a lungo e quindi suggerirgli di movimentare la corsa in prima persona, perché trae maggiore vantaggio da una corsa dura, piuttosto che da una assopita.

L'obiettivo di un tecnico delle categorie giovanili dovrebbe essere quello di arrivare a fine stagione con un gruppo di ragazzi in grado di improvvisare una corsa senza che abbiano avuto indicazioni tattiche definite prima della partenza, non quello di vincere più corse possibili comandandoli roboticamente. Obiettivamente in Italia in questo momento succede (spesso) la cosa diametralmente opposta.

Chiudiamo con un'indicazione sacrosanta di De Candido: “C’è tanta fretta, si vuole tutto e subito. Non va dimenticato che il primo impegno dei ragazzi a questa età deve essere la scuola. Uno su cento potrà diventare professionista e vivere di ciclismo ma per tutti gli altri serve un diploma". Qui si aprirebbe una lunga parentesi sul rapporto tra scuola e sport, forse in questo caso effettivamente più organico e produttivo all'estero che in Italia. Ad ogni modo, posto che per i comuni mortali è impossibile rivoluzionare il sistema scolastico, la statistica offerta resta incontrovertibile.

Stiamo affastellando molti concetti ed è giunto il momento di mettere un punto e trarre delle conclusioni. Il nostro movimento giovanile ha effettivamente dei problemi nella formazione dei ragazzi, ma questi non sono da rintracciare nei risultati ottenuti nelle prove internazionali delle categorie inferiori. I maggiori risultati ottenuti da altre nazionali potrebbero in effetti dipendere dal più alto carico di allenamento, ma non è detto che questo sia la strada migliore per una corretta crescita dei talenti. Al contrario il lavoro svolto dalla nazionale su alcuni dei nostri nomi più promettenti sta dimostrando che un approccio rilassato e mirato ad esaltare le qualità di ciascuno al momento giusto porta a risultati ben più consistenti sul lungo periodo.

I problemi sono altri e più complessi: all'estero su alcune cose sono effettivamente meglio di noi, ma non certo per il semplice fatto di allenarsi di più. Questo ce lo dimostra anche il fatto che molti dei nomi più gettonati del movimento internazionale hanno avuto percorsi anomali: Van der Poel, Van Aert e Pidcock provengono da un attività prevalente nel ciclocross, Evenepoel è stato un calciatore di spicco fino a 16 anni, Roglic ha iniziato a fare ciclismo quando già era Élite dopo un infortunio nel salto con gli sci… insomma quali sarebbero i clamorosi talenti sfornati dai movimenti giovanili esteri? Forse vale l'esempio della Slovenia (al netto di Roglic rappresentata comunque da molti altri, partendo da Pogacar e Mohoric), ma è tutto da dimostrare che gli sloveni facciano 23000 km l'anno da juniores: l'unico sloveno ancora in attività ad essere salito sul podio dei mondiali da junior è proprio Mohoric, talento cristallino che ha vinto la prova iridata sia da junior che da U23 ed ha saputo confermarsi da professionista.

E se escludiamo gli sloveni chi potrebbe essere un talento ad aver avuto un percorso di crescita lineare prima di diventare professionista? Jonas Vingegaard potrebbe fare al caso nostro dal momento che ha corso in tutte le categorie giovanili; tuttavia ha avuto risultati buoni ma non spettacolari restando relativamente lontano dal giro della nazionale danese al contrario di altri suoi coetanei oggi molto meno celebri di lui; non dimentichiamoci che è stato assunto dalla Jumbo-Visma per un KOM sul Coll de Rates, non per l'alto numero di successi conseguiti da ragazzo (sì, lo sappiamo: abbiamo estremizzato la narrazione, ma ogni tanto serve anche questo). E quindi chi potrebbe essere un altro fenomeno ad aver corso in tutte le categorie e ad essere frutto anche del lavoro della nazionale? Verrebbe in mente proprio Filippo Ganna, un italiano. Sipario.

Tour of the Alps 2023 - Analisi del percorso
6 curiosità sulla bicicletta e sul ciclismo
Francesco Dani
Volevo fare lo scalatore ma non mi è riuscito; adesso oscillo tra il volante di un'ammiraglia, la redazione di questa testata, e le aule del Dipartimento di Beni Culturali a Siena, tenendo nel cuore sogni di anarchia.