Tadej Pogacar all'arrivo di Laruns, Tour de France 2023 © UAE Emirates-SprintCycling
L'Artiglio di Gaviglio

Della Vanaertizzazione di Pogačar

I destini incrociati di due fuoriclasse che rischiano di uscire ridimensionati da questo Tour: in senso assoluto Wout, relativamente ai grandi giri Tadej

06.07.2023 10:16

Sì certo, va bene Van der Poel ed Evenepoel: ma se ci sono due che, veramente, in questi anni ci hanno dato l’impressione di poter riportare le lancette indietro di quaranta o cinquant’anni, avendo i numeri per poter vincere praticamente qualsiasi corsa del calendario, quelli sono Van Aert e Pogačar. E però, sia pure partendo da premesse diversissime e ragionando su piani diversi, sia Wout che Tadej rischiano di uscire ridimensionati da questo Tour de France che è appena iniziato, e che già è così denso di significati.

Un ridimensionamento in senso assoluto – ahimé! – per il belga, che già era reduce dall’impressionante serie di scoppole patita in primavera, e che non sembra avere ancora ritrovato il miglior colpo di pedale nemmeno sulle strade che più lo avevano esaltato negli anni scorsi, quelle di Francia, appunto. Relativamente ai grandi giri lo sloveno che, numeri alla mano, sulle grandi montagne del Tour le ha sempre prese da Jonas Vingegaard o, tutt’al più, è stato suo pari. Ma mai superiore.

Riavvolgendo il nastro della rivalità tra il biondo di Komenda e quello di Hillerslev, infatti, ci accorgiamo che mai Tadej ha vinto uno scontro diretto in salita, se non in corse preparatorie quali la Parigi-Nizza di quest’anno. Ma alla Grande Boucle, mai: e non vale il precedente di Le Grand-Bornand, ottava tappa dell’edizione 2021, in cui Pogačar ammazzò la corsa andandosene sotto il diluvio ad una quarantina di chilometri dall’arrivo, sul Col de la Romme, di fatto ipotecando il suo bis in giallo dopo il ribaltone servito l’anno prima a Roglič alla Planche des Belles Filles. Quel giorno, infatti, Vingegaard era ancora, appunto, il giovane luogotenente di Primož, e lui per primo, probabilmente, non aveva ancora piena contezza di quali fossero i suoi limiti. Tant’è che non ci provò nemmeno a seguire Pogačar, lasciando che fosse Carapaz a farlo, e a rimbalzare malamente.

Qualche giorno più tardi, però, sul Mont Ventoux, per la prima volta Jonas riuscì a mettere luce tra sé e Tadej in salita: troppo poca e troppo tardi per sperare di strappargli la maglia gialla, ma sufficiente ad accendere quella scintilla che, dodici mesi più tardi, si sarebbe trasformata in un fuoco di forza e convinzione tale da sovvertire gerarchie che fino a quel momento erano sembrate inscalfibili. Proprio sul Ventoux, peraltro, qualche minuto avanti agli uomini di classifica c’era l’altro campione oggi sull’orlo di una crisi di nervi, Van Aert, che quel giorno si produsse in uno dei capolavori più ammalianti della sua carriera, scavando solchi in salita nei confronti dei compagni di fuga e resistendo alla grande anche al ritorno dei big, per andare a cogliere uno splendido successo solitario a Malaucène al quale avrebbero fatto seguito, negli ultimi due giorni di Tour, anche la cronometro di Saint-Émilion e l’ambitissima volata degli Champs Elysées.

Ne è passata, da allora, di acqua sotto i ponti per il RollingStone di Herentals: capace, sì, di confermarsi agli stessi livelli alla Grande Boucle 2022, ma rimasto invece all’asciutto di successi di peso nelle grandi classiche, il cui computo è fermo, di fatto, alla doppietta Strade Bianche-Sanremo del 2020, quando si muovevano le prime pedalate dopo il lockdown, e quando Pogačar era ancora un ragazzino di belle speranze reduce da un podio alla Vuelta nella stagione del debutto tra i pro’.

Di acqua, sotto i ponti, ne è passata tantissima anche per Tadej, naturalmente: due Tour de France consecutivi, altrettanti Lombardia, una Liegi e quest’anno una primavera di abbagliante bellezza, nella quale è stato capace di mettere le mani su Fiandre, Amstel e Freccia Vallone. E però… però, nel frattempo, c’è stata anche la batosta alla Boucle della scorsa stagione, che Taddeo aveva iniziato in maniera ancora più baldanzosa di quest’anno, vincendo a Longwy e alla sua amata Planche, e regalando spettacolo pure sulle pietre della Roubaix, salvo poi finire gambe all’aria sul Granon, senza più riuscire a risollevarsi sui Pirenei. Allora – pensammo tutti – Pogačar l’aveva buttata via: spendendo, spandendo ed effondendo nei primi giorni di corsa e, soprattutto, cadendo come un pollo nella trappola tesagli dalla Jumbo in quella fatidica 11esima tappa, quando la maglia gialla, anziché francobollarsi alla ruota di Vingegaard che a quel punto era già l’unico vero rivale rimasto sulla sua strada, si era incaponita nel rispondere anche agli allunghi di Roglič e ad un certo punto perfino di Laporte, nel risciacquo tra Télégraphe e inizio del Galibier! 

E quest’anno? Beh, dopo una prima parte di stagione da sogno, c’è stata la frattura allo scafoide rimediata alla Liegi che ne ha molto complicato l’avvicinamento al Tour e che, oggi, può essere chiamata in causa come alibi assolutamente legittimo. Però, tra Bilbao e San Sebastián, avevamo già avuto modo di apprezzare un Pogačar bello pimpante e combattivo, decisamente sul pezzo: fosse stato imballato dai postumi dell’infortunio, avrebbe magari optato per un approccio più prudente. E ad ogni modo, se a difettargli per la preparazione imperfetta dovesse essere il fondo anziché la freschezza, i guai per lui sarebbero dovuti venire più avanti, e non già alla prima, vera tappa di montagna. L’impressione, dunque, è che Occam abbia ragione anche questa volta, e cioè che la spiegazione più semplice sia anche quella corretta: in salita Pogi è forte, fortissimo, ma Vingegaard lo è di più

Esattamente come Van Aert è forte, fortissimo sulle pietre, e in volata, e a cronometro, ma di volta in volta – e negli ultimi tempi, sempre più spesso – su ogni terreno trova qualcuno che ne ha più di lui. E come Pogačar può nascondersi dietro a quel polso sinistro ancora dolorante, così Wout può ancora cullare l’idea che senza la foratura sul Carrefour de l’Arbre quest’anno l’avrebbe staccato, Van der Poel, e al velodromo di Roubaix sarebbe stato lui, e non quell’altro, ad arrivare da solo!

Chissà… Alla fine contano i fatti, e i fatti ci dicono di una preoccupante involuzione del belga su tutti i terreni, di un suo ruolo in seno alla Jumbo-Visma sempre più difficile da comprendere, e di una sua preoccupante regressione a gregario di lusso. Splendido e irresistibile uomo squadra, professionista ineccepibile, ma pur sempre gregario. Un Van Aert che rischia, dunque, addirittura di Bruseghinizzarsi, mentre dall’altra parte c’è un Pogačar che, almeno nelle grandi gare a tappe – o, per meglio dire, al Tour – sembra essere per l’appunto in procinto di Vanaertizzarsi.

Certo, come detto, il paragone ha senso solo se relativizzato al confronto con Vingegaard in queste tre settimane di luglio perché, quanto al resto, proprio quest’anno Pogačar ha confermato di possedere una classe tale per cui nessun traguardo gli è precluso. E chissà che, alla fine, non si riveli semplicemente più portato per le corse di un giorno che per quelle a tappe. E poi, il buon Taddeo, ha ancora tutto il tempo, la tigna e l’incoscienza per dare un’altra inversione di rotta alla sua carriera. E cioè per… Nibalizzarsi, rivelandosi cioè capace di vincere contro pronostico, come lo Squalo seppe fare alla Sanremo 2018, e ribaltare situazioni apparentemente compromesse, se non irrecuperabili, come quella che vedeva Vincenzo ben lontano dalla maglia rosa di Kruijswijk a tre giorni dalla fine del Giro 2016. Magari Tadej ci riuscirà già a partire da questo Tour, magari fin da oggi, attaccando a muso duro Vingegaard sul Tourmalet, se non addirittura sull’Aspin.

Perché in fondo è proprio questa la cifra di Pogačar: un corridore fortissimo, certo, e soprattutto imprevedibile. Uno dal quale, quando mette il numero sulla schiena, possiamo davvero aspettarci di tutto. Anche che alla fine riesca, in qualche modo, a sconfiggere la… Reazione incarnata da Vingegaard, emblema dell’iperspecializzazione che cerca di richiudere nella botola il ciclismo d’un tempo: quello che Pogačar e Van Aert, ancora pochi mesi fa, parevano avere riportato di gran moda.

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