La gioia di Claudia Cretti ai Mondiali di Glasgow 2023 © FCI
La Tribuna del Sarto

Paralimpici ed élite insieme: un passo nella direzione giusta

La novità lanciata dall'UCI ai superMondiali di Glasgow non è un eccesso di politicamente corretto ma un cambio di prospettiva che rimette in discussione il significato simbolico dello sportivo e del suo corpo

12.08.2023 09:00

Il mondiale di Glasgow sarà ricordato per essere la prima “Olimpiade del ciclismo”, una kermesse che vede la bicicletta declinata in tante discipline: strada, BMX, pista, MTB, artistico, fino al cycle-ball; manca per questioni climatiche il ciclocross, il cui mondiale quest’anno è stato già disputato e vinto dal neo-campione del mondo su strada, Van der Poel, che domenica ha centrato così una storica doppietta.

Una grande abbuffata di pedalate, in mille forme, una confusione non da tutti apprezzata, ma anche un bellissimo spettacolo e tanta curiosità per vedere l’effetto che fa.

Il ciclismo ha bisogno di cercare nuove strade, e questa ha una sua logica; la concentrazione, in pochi giorni e nella stessa area geografica, delle prove mondiali delle varie discipline, permette al ciclismo di auto-celebrarsi e di promuoversi in tutte le sue forme. Un esperimento che solo il tempo saprà dire se indovinato; in ogni caso, giusto fare un plauso al coraggio dell’UCI nel provare a cercare nuove vie, nuovi format in questa difficile epoca, sempre alla ricerca della ricetta giusta per attirare l’interesse delle nuove generazioni e del grande pubblico televisivo.

L’UCI non si è limitata all’esaltazione assoluta della multi-disciplina, ma ha anche organizzato le prove mondiali su pista in contemporanea con quelle del paraciclismo, riconoscendo una pari dignità ai due mondi. Eccesso di politicamente corretto? Non credo.

Seguire nella stessa manifestazione le gare di Ganna e della Cretti è un esercizio nuovo, spiazzante. Davanti alla diversabilità, molti, se non tutti, viviamo un sentimento di ammirazione misto ad uno tono di compassione. Certo, emozioni sincere nei confronti di chi, malgrado la mancanza di una gamba, della vista o altro, riesce a svolgere una vita normale (ammesso che esista una definizione di normalità) oppure a praticare sport di alto livello. È la mancanza di abitudine ad interagire, conoscere, toccare la disabilità che genera un’attenzione sbagliata su ciò che manca nell’altro e non su ciò che c’è ed è l’altro.

Lì dove uno sguardo-macigno pesa sulle spalle ancor più del deficit motorio o sensitivo, lo sport paralimpico educa, sconfigge il pregiudizio, è la lente che corregge la nostra miopia. Sono diversi anni che si osserva una crescita di interesse per questo mondo; personaggi come Bebe Vio hanno conquistato il cuore di molti, non per compassione, ma per simpatia e qualità umane e fisiche, fino a diventare anche loro icone pubblicitarie di marchi importanti.

In Italia la RAI ha davvero svolto il suo ruolo di servizio pubblico, insistendo sullo sport paralimpico quando ancora era solo una nicchia nascosta; ha creato personaggi, raccontato storie, senza retorica ed attraverso una narrazione mai mielosa, capace di descrivere tutte le sfumature sportive, tecniche ed umane, come e forse meglio dell’élite.

Intervallare le prove del paraciclismo su pista a quelle assolute è quindi un ulteriore passo avanti, e non ha stupito che la rete pubblica italiana si sia fatta trovare preparata. Nella loro telecronaca Francesco Pancani e Pierangelo Vignati hanno saputo mantenere immutato il tono della narrazione tra le diverse categorie di gare, una dimostrazione di sincero riconoscimento di pari dignità sportiva.

Abituarsi a vedere queste corse è un esercizio utile a riconoscere davvero una diversa abilità, a scioglierci dall’imbarazzo che istintivamente proviamo davanti ad un arto menomato oppure agli occhi di un non vedente, a cambiarci lo sguardo verso la disabilità, e forse anche verso lo sport di élite.

Alla Tribuna del Sarto, abbiamo più volte provato a capire il significato simbolico dello sportivo ed in particolare del suo corpo, un superuomo personificazione di produttività ed efficienza, un concetto di limite che nel bene e nel male scrive ogni giorno le pagine di questo fenomeno culturale. Mettere vicini due corpi, quello dell’atleta e del para-atleta, ci dimostra quanto siano simili, ma allo stesso tempo diversi simbolicamente.

Il primo è un’utopia, un modello, una matrice dell’uomo moderno; sottolineo, l’efficienza produttiva allo stato puro. Il secondo, colui che invece deve fare i conti con i limiti imposti dalla disabilità, al fine di compensare e superare ciò che sembrava invalicabile, estremizza tutte le sue capacità residue; è la dimostrazione che il nostro fisico ha risorse troppo spesso misconosciute, qualcosa che va ben oltre un semplice esercizio di volontà.

Bisogna riconoscere che entrambi i corpi hanno un concetto estremo del limite, per questo forse lo sport paralimpico non è esente da certe distorsioni, come il doping o lo stress; ma il confronto è comunque un generatore di cambiamento, un possibile rimodellamento dell’icona dell’atleta. In un esercizio di specchi uno riconosce nell’altro un’immagine, il para-atleta vede nel campione assoluto il pericolo di un modello di salute distorto ed estremizzato, possiamo anche dire offeso, alla ricerca di un ideale e non della felicità; mentre l’élite, al contrario, deve prendere atto che il suo valore da assoluto diventa relativo.

Un confronto che potrebbe davvero rimodulare lo sport, spogliandolo da un’aura magico-religiosa e dal ruolo di matrice e modello antropogenico della nostra società; un dover invece fare i conti con i propri limiti, in armonia “ecologica” con ciò che siamo e che abbiamo attorno. Anche lo sport paralimpico potrebbe mutare il suo concetto di fragilità, non più solo barriera da superare, ma comprendere che a volte l’oltre è troppo ed il giusto è il sano.

Non possiamo sapere se questo avverrà nelle menti e nei cuori dei corridori, non siamo nemmeno in grado di prevedere che lo spettatore medio sia capace di superare il “disagio” di dover sopportare le gare di paraciclismo tra una medaglia iridata assoluta e l’altra. Intanto è un gran bene che queste categorie corrano assieme.

Speriamo che questo contatto spalla a spalla tra discipline olimpiche e paralimpiche rompa la coreografia stucchevole attorno alla disabilità, rimoduli il significato simbolico dell’atleta assoluto e non, che possa essere un’epifania di una nuova cultura sportiva, dove la sfida è vissuta nella fragilità della nostra natura e non con il fine di cancellarla, uno sport davvero per tutti.

Dunque nessuna retorica o politicamente corretto, l’UCI forse ha davvero fatto un passo avanti nella direzione giusta; ora sta agli atleti ed al pubblico cogliere questa opportunità.

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