
Perché il ciclismo è (quasi) l’unico sport che ha estromesso Israele, dall’inizio
Nel giorno di Italia–Israele, constatiamo che mentre altri sport ignorano le accuse internazionali a Israele, il ciclismo è stato l’unico a tradurre la pressione civile in un cambiamento reale
Nel giorno in cui in uno stadio italiano va in scena Italia–Israele per le qualificazioni ai Mondiali 2026, con la partita che si gioca come se nulla fosse, il ciclismo racconta una storia diversa: un finale di stagione in cui le manifestazioni popolari, le tensioni lungo il percorso e le decisioni degli organizzatori hanno finito per isolare — in termini concreti di inviti e di immagine pubblica — una squadra che portava il nome di uno Stato. A guardare i fatti, il ciclismo è diventato quasi l’unico sport ad aver tradotto in esclusioni pratiche e immediate le pressioni “dal basso” il progetto di sportwashing israeliano. Questo articolo ricostruisce, passo dopo passo, come si è arrivati a questo punto e perché la vicenda è così singolare nel panorama sportivo contemporaneo.
L’innesco: la Vuelta, la cronosquadre di Figueres e le proteste che hanno cambiato la stagione
La miccia si è accesa durante la Vuelta a España 2025: proteste pro-Palestina che per giorni hanno costellato il percorso della corsa iberica sono esplose in episodi di forte tensione, che già abbiamo raccontato in un articolo precedente. Durante la cronosquadre a Figueres del 27 agosto manifestanti hanno bloccato la strada davanti al plotone con striscioni inneggiando al boicottaggio nei confronti di Israele, costringendo i corridori della Israel–Premier Tech (IPT) a frenare improvvisamente e suscitando dichiarazioni di shock e allarme da parte della squadra. Gli organizzatori e i commissari si sono trovati a dover ricostruire i tempi e riordinare la classifica dopo l’accaduto.
L'escalation è proseguita fino a Bilbao, dove le proteste si sono spinte fino alle transenne del finale di corsa e la situazione al traguardo è stata definita "incontrollabile", tanto che la direzione di corsa ha deciso di neutralizzare gli ultimi chilometri per motivi di sicurezza. Immagini e video della tappa mostrarono un percorso saturo di bandiere e attivisti, con tensioni costanti lungo le aree di arrivo.
La squadra non è rimasta impassibile: ha provveduto alla rimozione provvisoria del nome “Israel” dalla squadra dopo che già lo aveva tolto dai mezzi in dotazione alla squadra e dalle divise di allenamento, tutte misure che si sono rivelate pannicelli caldi per gestire un’emergenza di sicurezza che cresceva giorno dopo giorno.

Reazioni nel gruppo: corridori, management e l’eco politica
Le reazioni dentro e intorno al mondo del ciclismo sono state nette e spesso contrapposte. Da una parte la dirigenza di IPT e il suo proprietario Sylvan Adams, che hanno difeso la permanenza in corsa e respinto l’idea di rinunciare alla denominazione legata a Israele: “Non correremo mai senza il nome Israel”, ha detto Adams, bollando come «terroristi» chi aveva compiuto azioni violente contro mezzi della squadra; il management ha ribadito più volte che la squadra “è una squadra ciclistica e non fa politica”. In questo frangente è arrivato niente poco di meno che l'incoraggiamento del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che elogiava la caparbietà del team nel non cedere alle pressioni. Anche il presidente dell’UCI, secondo la squadra, avrebbe espresso il proprio sostegno.
Dall’altra parte, voci di corridori e rappresentanti hanno chiesto misure e spiegazioni. Alcuni atleti (Pello Bilbao tra i più espliciti) hanno denunciato quella che hanno definito “ipocrisia” dell'UCI e hanno rivendicato il ruolo delle proteste nel dare visibilità alla crisi umanitaria in corso, auspicando che l’UCI e gli organizzatori si pronuncino in modo più deciso. Altri, come Matteo Jorgenson, si sono pronunciati nei canali privati del CPA. Elia Viviani, rappresentante del CPA (l’associazione dei corridori) ha chiesto chiarezza e tutela della sicurezza, sottolineando il disagio di chi si trovava a competere in un clima incandescente.
Parallelamente, l'organizzazione della corsa — dal direttore tecnico della Vuelta al management degli eventi — ha evidenziato il dilemma pratico: la presenza di IPT era regolata da inviti e obblighi contrattuali; al tempo stesso, la sicurezza degli atleti e del pubblico non potevano essere messe a rischio. Le richieste politiche di esclusione (arrivate anche dal governo spagnolo) hanno aggiunto ulteriore pressione pubblica.
Effetto domino nelle classiche italiane: rinunce, esclusioni e l’enigma del diritto sportivo
Dopo le settimane turbolente in Spagna la vicenda si è spostata in Italia, dove la presenza della Israel-Premier Tech, invitata alle classiche autunnali, ha messo in allarme gli organizzatori. In quel momento le piazze italiane erano particolarmente calde sulla questione palestinese: due scioperi generali in dieci giorni avevano protestato contro l'indifferenza del governo italiano e il mancato supporto alla missione umanitaria della Global Sumud Flottilla.
Nel caso del Giro dell’Emilia una richiesta formale del Comune ha portato all’esclusione della squadra, mentre nel caso del Trittico Lombardo, la versione ufficiale che ha accompagnato l'esclusione è stata che la scelta di non partecipare fosse venuta dalla squadra stessa. In realtà pare ci siano stati dei problemi logistici oggettivi, quali l'indisponibilità delle strutture alberghiere ad ospitarli, la presenza di una scorta e di servizio di sicurezza delle stesse dimensioni di quelle c'erano stati al Giro d'Italia. Una situazione molto più complessa si è verificata al Lombardia.

La questione aveva una dimensione tecnica non banale: regolamenti e diritti di invito (l’IPT aveva il diritto alla wild card per i punteggi dell’anno precedente) si scontravano con la discrezionalità dell’organizzazione. Ne è derivata una situazione ibrida in cui, pur formalmente tutelata da norme, la squadra è stata di fatto tagliata fuori dalla corsa, per quanto anche qui gli organizzatori abbiano parlato di “decisione condivisa”.
Le conseguenze: dall’annuncio del rebranding ai contrasti legali e personali
La pressione complessiva ha prodotto cambiamenti strutturali. A ottobre 2025 la squadra ha annunciato un rebranding: dalla stagione 2026 la dicitura “Israel” verrà rimossa dal nome tecnico mentre la proprietà ha avviato una ricomposizione dell’identità del team. Sylvan Adams, figura simbolo del progetto, ha annunciato un progressivo defilarsi dalle attività quotidiane per concentrarsi su altri ruoli associativi. La mossa è stata letta come una necessità per preservare la sopravvivenza sportiva e commerciale del team, dopo la fuga o la minaccia di fuga di sponsor e fornitori: il marchio di biciclette che sponsorizza il team (Factor Bikes), aveva infatti imposto un aut aut sul cambio di nome.
Tra gli atleti, la vicenda più eclatante è stata quella di Derek Gee, che ha risolto anticipatamente il contratto dichiarando di aver agito per “giusta causa”, citando conflitti con la dirigenza e problemi di coscienza personale e sicurezza; la squadra ha risposto parlando di un contenzioso in fase di arbitrato.
Sul piano agonistico, nonostante le esclusioni a livello di team professionistico, alcuni atleti israeliani hanno continuato a essere presenti nel calendario internazionale: ad esempio, Nadav Raisberg è partito ai Mondiali su strada di Kigali 2025 con la maglia nazionale, (il corridore non ha poi concluso la prova, come la gran maggioranza degli atleti); inoltre diversi atleti israeliani hanno corso in corse dilettantistiche ed eventi europei sotto l’effigie della nazionale — a settembre la nazionale israeliana ha corso senza problemi in Spagna, alla Vuelta a Cantabria / GP Gobierno de Cantabria — mentre ai Campionati Europei la nazionale non si è presentata (non è chiaro se per decisione tecnica o per motivi di altra natura). Per quanto riguarda i Mondiali su pista di Santiago del Cile, la nazionale Israeliana avrebbe diritto a due posti tra Velocità e Keirin maschile, ma la startlist ufficiale non era disponibile al momento delle ultime verifiche.
Perché “quasi”: il confronto con altri sport
Se nel ciclismo le pressioni si sono tradotte in esclusioni concrete e in un cambio d’identità forzato per la Israel–Premier Tech, altrove la situazione è rimasta molto diversa.
Nel calcio, simbolicamente rappresentato dal match Italia–Israele, le partite in calendario si sono disputate regolarmente, le federazioni hanno mantenuto i propri impegni e si è registrata una riluttanza diffusa a prendere posizione.
In altre parole, negli altri sport, nonostante appelli e prese di posizione politiche, nessuna federazione internazionale ha adottato provvedimenti nei confronti di Israele. Le condanne emesse dalla Corte penale internazionale contro membri del governo israeliano e il rapporto dell’ONU che accusa Israele di portare avanti un genocidio a Gaza non hanno avuto conseguenze sul piano sportivo.
La UEFA, pur avendo ricevuto richieste di riflessione da più parti interne, avrebbe rassicurato la federazione israeliana che non erano previste sanzioni né sospensioni. 
La presenza di Israele nello sport mondiale è così proseguita secondo le linee ordinarie, malgrado le pressioni della società civile, che chiedono coerenza con il precedente non troppo lontano dell'esclusione degli atleti russi e bielorussi. Il CIO ha motivato questa decisione con il fatto che per Russia e Bielorussia sussistessero aggravanti, ovvero “attacchi diretti al sistema sportivo internazionale” (doping di Stato, manipolazione dei controlli, uso politico delle federazioni, violazione della tregua olimpica). Per citare due esempi, la nazionale israeliana ha partecipato senza restrizioni agli Europei di basket 2025 di fine agosto e alla European Golden League maschile di pallavolo tra giugno e luglio.
Un caso che si avvicina per effetto pratico al ciclismo è stato quello della ginnastica artistica: l’Indonesia ha negato i visti agli atleti israeliani in vista dei Mondiali di Jakarta 2025, impedendo di fatto la partecipazione e portando a azioni legali e appelli internazionali. L’esclusione qui, però, è il risultato di una decisione governativa locale legata a politiche di Stato e a posizioni diplomatiche internazionali, più che di una mobilitazione popolare che abbia imposto un ripensamento alle federazioni internazionali o agli sponsor — come invece è avvenuto nel ciclismo.
Dal punto di vista delle decisioni dall'alto, nel ciclismo l'UCI non ha preso nessuna posizione più netta di altre federazioni sportive mondiali. La differenza è dunque nel meccanismo: nel caso del ciclismo la pressione è arrivata «dal basso» — piazze, manifestazioni, visibilità sui percorsi — e ha portato a conseguenze operative e commerciali; nel caso della ginnastica, è stata una decisione statale a impedire la partecipazione.
Perché il ciclismo? Tre caratterisctiche peculiari di questo sport
La visibilità del percorso. Una corsa su strada è un evento che attraversa territori e città: i manifestanti possono fisicamente occupare il percorso, le transenne, gli arrivi, che sono molto più difficili da proteggere rispetto a uno sport al chiuso. Questo rende il ciclismo un “palcoscenico” direttamente esposto alle mobilitazioni pubbliche, con un potere di interruzione che pochi altri sport hanno.
Il rapporto tra team identity e sponsor. Il nome e la livrea di una squadra sono beni commerciali: sponsor e fornitori hanno voce in capitolo. Quando la pressione pubblica mette a rischio l’appeal commerciale, le scelte di brand (come il rebranding della IPT) diventano una soluzione pragmatica per la sopravvivenza.
La rete delle gare e la discrezionalità degli organizzatori. Le corse professionistiche dipendono molto dalla volontà degli organizzatori locali e dei comuni ospitanti, che possono spingere per l’esclusione o per la rinuncia per ragioni di ordine pubblico. Nel caso italiano, gli enti locali hanno avuto un ruolo attivo nelle esclusioni.
Conclusione: un plauso critico al ruolo «dal basso» del ciclismo, e una domanda aperta
Se si guarda al quadro complessivo, è possibile chiudere con una constatazione netta: il ciclismo è stato quasi l’unico sport in cui la pressione popolare ha prodotto, nell’arco di pochi mesi, l'esclusione di un team che aveva per sua natura il compito di legittimare lo stato di Israele e il suo governo (da cui riceve finanziamenti, per quanto contenuti) anche a livello sportivo. È un risultato che alcuni vedono come un segnale politico — la capacità della società civile di influire su questioni sportive — e altri come un precedente pericoloso per il futuro del ciclismo stesso, che rischia di essere sempre esposto agli umori delle piazze.
Il fatto che, nello stesso giorno, una nazionale come l’Italia se la veda regolarmente con Israele sul campo di calcio mette in luce una spaccatura: mentre il grande palcoscenico del calcio continua a funzionare su logiche internazionali consolidate, il ciclismo ha dimostrato che la «strada» è anche uno spazio di conflitto simbolico e pratico, dove manifestazioni e rabbia pubblica possono arrivare a cambiare il calendario e l’identità sportiva.
Restano aperte molte domande — sul ruolo delle federazioni internazionali, sull’equilibrio tra sicurezza e diritto alla partecipazione, sulla responsabilità degli sponsor e sulla tutela degli atleti —, ma non possiamo esimerci dal riconoscere che gli attori concreti del mondo del ciclismo (atleti, dirigenti, organizzatori), al netto della posizione pilatesca dei vertici istituzionali, hanno progressivamente preso atto della situazione e sono intervenuti, evitando che gli eventi restassero in balìa dell’inazione di chi detta le regole del gioco.

